sabato 15 novembre 2014

Compagne di viaggio

Si trovava esattamente dove non avrebbe mai voluto essere.
Seduta sulla sedia di plastica blu, si guardava intorno smarrita, ripetendosi che quello non era il suo posto, che lei non doveva essere lì. Era un incubo.
Un brutto sogno, sì: così si spiegava tutto. Sicuramente tra poco si sarebbe svegliata, magari con la voce del piccolo che la chiamava dall'altra stanza perché aveva sete. Oppure l'avrebbe svegliata suo marito che si agitava nel letto al suo fianco. Ecco, sì, era quello. Nel sogno c'era proprio suo marito che si agitava sulla sedia vicino alla sua: evidentemente il suo subconscio stava rielaborando la realtà.
Un pizzicotto. Ci voleva un pizzicotto per svegliarsi. O forse serviva solo per dimostrare che si stava sognando? Non importava: un pizzicotto avrebbe risolto tutto. Si sarebbe data un pizzicotto e l'incubo sarebbe finito. O no?
Sentiva gli occhi bruciare, la gola che si chiudeva. Si può piangere, nei sogni? Mentre muoveva la mano per cercare quella del marito si graffiò contro la cerniera della borsa. Bastò quel piccolo dolore per abbattere quel poco che restava delle sue difese.
Non voleva piangere, non lì, davanti a tutte quelle persone sconosciute, ma le lacrime scorrevano senza che riuscisse a fermarle. Nascose il viso contro la spalla del marito, mentre cercava un fazzoletto nella borsa.
Perché stava succedendo? Perché proprio a lei? Dove aveva sbagliato?
Tutti le ripetevano quasi ossessivamente che non era colpa sua, che non aveva niente da rimproverarsi. L'aveva detto anche la dottoressa, quella gentile: «Lei non ha familiarità e nessuno dei fattori di rischio noti: non fuma, non beve alcolici, non è sovrappeso, si alimenta in modo corretto, non vive in un ambiente inquinato, ha avuto due figli e li ha allattati…»
«E allora perché è successo? Perché?» Aveva quasi urlato.
La dottoressa aveva risposto con sincerità: «Non lo so. Non conosciamo ancora tutti i meccanismi di queste malattie, non sempre siamo in grado di capirne le cause». Era stata sincera anche dopo: «Non posso promettere che guarirà, ma ci sono buone probabilità».
Buone probabilità, certo. Lei non ci credeva più, alle probabilità. Secondo la statistica non si sarebbe mai dovuta ammalare, eppure ora era lì, su quella dannata sedia blu, a piangere. Non sapeva di avere tante lacrime.
Si era sforzata di ricomporsi e con il viso mezzo nascosto dietro al fazzoletto aveva dato un'occhiata intorno. La sala d'attesa era affollata, c'erano soprattutto donne. Qualcuna aveva la testa avvolta in un foulard; probabilmente le altre avevano una parrucca, ma era difficile capirlo, sembravano molto naturali. Alcune avevano il viso gonfio; l'altra dottoressa, quella dai modi bruschi, le aveva spiegato che era la "faccia da luna piena" dovuta al cortisone. Due avevano un colorito verdastro e occhiaie profonde. Sembravano tutte molto più vecchie di lei.
Aveva deciso di non voler avere niente a che fare con loro, di non voler essere come loro. Lei era lì solo per uno scherzo crudele del destino; era diversa, era giovane, aveva due bambini piccoli, un lavoro importante… Si era accorta che stava di nuovo piangendo e che una donna con il foulard giallo la guardava con aria di compatimento. No! Non voleva la sua pietà, non voleva la pietà di nessuno. Aveva risposto a quello sguardo con aria di sfida e l'altra aveva distolto gli occhi. Uno a zero per lei.
Si sentiva a disagio, ora le pareva che tutti la guardassero ed era stato quasi un sollievo sentire il suo numero all'altoparlante: trentasette. Tre più dei suoi anni. Aveva passato ancora una volta il fazzoletto sugli occhi, congratulandosi con se stessa per aver scelto un mascara waterproof, e aveva lasciato finalmente l'odiosa sedia blu per raggiungere… Di colpo si era resa conto che non sapeva dove andare. Certo non negli ambulatori dove aveva avuto i colloqui con i medici, sicuramente le stanze per le terapie erano da qualche altra parte, ma dove? Aveva guardato il marito con gli occhi sbarrati mentre il panico le scavava nello stomaco. Lui aveva frainteso la sua espressione e fatto per abbracciarla. «Stai tranquilla, andrà tutto bene!» Lei si era divincolata sibilando. «Non è quello!». Si era accorta di averlo ferito e si era sentita meschina. «Scusa», aveva detto sottovoce. «È solo che non so dove devo andare».
All'improvviso si era ritrovata a fianco la donna con il foulard giallo. «Prima chemio?» aveva chiesto con un sorriso. E subito, senza lasciarle nemmeno il tempo di rispondere: «Venga, la accompagno io».
Troppo sorpresa per reagire, si era accodata obbediente, mentre il marito raccoglieva la cartella con la documentazione medica e le seguiva. La donna con il foulard si era voltata a guardarli: «Gli accompagnatori non possono stare nelle stanze delle terapie: può portare le carte, ma poi dovrà tornare ad aspettarla qui».
Un colpo al cuore. «Come? Non può stare con me?». Di nuovo aveva sentito pungere le lacrime, mentre un groppo le serrava la gola.
«No, cara, le stanze non sono abbastanza grandi…». La donna con il foulard sembrava sinceramente dispiaciuta. «Ma vedrà che troverà compagnia».
Compagnia? In che senso? Lei non pensava certo di andarsene in giro con la flebo come aveva visto fare ad alcuni pazienti: aveva intenzione di chiudersi nella sua stanza, fare tutto ciò che doveva e poi andarsene appena possibile.
Quando avevano raggiunto le stanze per le terapie, aveva compreso quello che aveva voluto dire la donna con il foulard: invece di stanze singole con letti c'erano tre stanzoni, ognuno con due file di poltroncine reclinabili, quasi tutte occupate da pazienti con le flebo. Si era sentita morire.
«È arrivata la Franca!», «Buongiorno, Franca!», «Ciao Franca!». Infermiere e pazienti salutavano con calore la donna con il foulard giallo. «E chi abbiamo qui? Una nuova?». La guardavano tutti, avrebbe voluto scomparire. «Numero trentasette», aveva detto sottovoce a una delle infermiere.
L'infermiera le aveva sorriso: «Aspetti un attimo che controllo l'elenco».
Era rimasta ferma, imbarazzata, in mezzo alle chiacchiere che con l'arrivo di Franca avevano animato la stanza. Era completamente disorientata: tutto era così diverso da come se l'era immaginato… Ed era arrabbiata con se stessa per la debolezza che stava mostrando. Lei era uno stimato avvocato e si stava comportando come una bambina al primo giorno di asilo. Ci mancava solo che iniziasse a chiamare la mamma.
L'infermiera stava tornando con un foglio in mano. Franca le si era avvicinata con un sorriso: «La lascio nelle mani di Michela, che si prenderà buona cura di lei. Vedrà che si troverà bene».
Bene? Come poteva trovarsi bene in un day hospital oncologico? Si sta bene in casa a giocare con i propri figli, si sta bene in un hotel a cinque stelle, non in un ospedale in mezzo a gente che sta per morire. Non quando, forse, stai per morire anche tu.
Si era ritrovata sulla poltroncina senza rendersi conto di come ci fosse arrivata, mentre l'infermiera le chiedeva di scoprire il port per infilare l'ago.
«È sotto la camicia», aveva balbettato.
«Sì, dovrebbe aprire i primi bottoni».
Intendeva dire che doveva spogliarsi davanti a tutta quella gente? Lei che non aveva allattato nemmeno davanti ai suoi familiari si sarebbe dovuta sbottonare la camicetta di fronte a un gruppo di sconosciuti? Di colpo la paura era stata sostituita dalla rabbia. Ma questi non avevano mai sentito parlare di privacy? Ah, ma lei era un avvocato, conosceva i suoi diritti, non si sarebbe fatta trattare in questo modo!
L'infermiera aspettava con l'ago in mano e un'espressione perplessa sul viso. «Signora, le hanno spiegato come funziona il port, vero? È tanto più comodo anche per noi, che non dobbiamo stare a cercare le vene. Sa, con la chemio si danneggiano, qualche volta si fa fatica e dispiace creare altro disagio a voi, che già ne avete tanto… Con il port è tutto più facile».
Facile, come no. Facile per lei! Ma che ne sapeva quell'infermiera del suo disagio, della vergogna, della paura? Che ne sapeva di cosa si prova quando ti dicono che hai il cancro? No, per favore, non di nuovo quelle maledette lacrime, non adesso!
«Mi scusi, io…» aveva iniziato. Ma non riusciva a proseguire.
L'infermiera aveva annuito, comprensiva. «Lo so, signora, non è facile. Ma noi siamo qui per aiutarla. Ha freddo? Vuole che le porti un lenzuolo?».
«Un lenzuolo, sì, grazie». Come si chiamava l'infermiera? Ah, Michela. «Grazie, Michela».
Senza saperlo, Michela aveva trovato la soluzione al suo imbarazzo. O forse lo sapeva, perché quando era tornata con il lenzuolo, l'aveva sistemato con abilità, in modo da nascondere completamente l'operazione di inserimento dell'ago.
Aveva chiuso gli occhi quando le prime gocce avevano iniziato a scendere dalla flebo. Non voleva vedere. Non voleva sentire le chiacchiere degli altri pazienti. Non voleva mescolarsi a loro. Non voleva essere lì. Non voleva. Punto.
Finita la prima flebo, Michela si era avvicinata per inserire l'altra, che era avvolta nella carta stagnola. Lei non aveva chiesto niente, non voleva sapere cosa fosse. Aveva chiuso di nuovo gli occhi.
Li aveva riaperti con la sensazione di essere osservata. Vicino alla sua poltroncina c'era Franca, con quell'assurdo foulard giallo, la flebo appesa a un'asta su rotelle e un sorriso appeso alla faccia. «Tutto bene?» le aveva chiesto. «Ha bisogno di qualcosa? Se vuole le possiamo portare un tè e i biscotti, oppure le fette biscottate. Sono offerti dall'associazione dei volontari. Anch'io sono una volontaria». Il sorriso si era allargato. «Ero, cioè. Prima di ammalarmi. Adesso sarei una paziente, ma cosa vuole, è difficile perdere l'abitudine… Non voglio disturbarla», aveva aggiunto, forse rendendosi conto della sua espressione ostile. «Se non le serve niente, vado via subito e la lascio tranquilla». Aveva iniziato a spostare l'asta della flebo, ma poi, quasi ripensandoci, era tornata a guardarla, più seria. «È difficile, lo so. Lo so davvero, adesso che ci sono in mezzo. Lo dicevo anche prima, ma non era vero, non lo sapevo. Non lo sai davvero finché non ti succede. Non sai tante cose: la paura, la fatica, l'imbarazzo di chiedere aiuto quando non ce la fai. Ma l'aiuto qualche volta serve e bisogna accettarlo, glielo dico con il cuore. È una strada troppo dura da percorrere da soli».
Si era ripromessa di non parlare con nessuno, lì dentro, ma non era riuscita a trattenersi dal rispondere: «È la mia battaglia, di nessun altro».
«La sua battaglia, capisco. È un modo di vederla, lo usano in tanti. Io preferisco pensare che sia un cammino, una strada. Perché non mi piace l'idea della guerra. Guerra contro chi, poi? Alla fine questa malattia è comunque roba mia. Non è come un virus che viene dall'esterno, quello puoi anche considerarlo un nemico, ma queste sono le mie cellule. Impazzite, certo, ma mie. Non riesco a odiarle. Bisogna volersi bene, soprattutto adesso». Aveva sorriso di nuovo. «Le dico un'ultima cosa poi la lascio in pace, promesso. In qualunque modo la voglia guardare, una battaglia, una strada o qualsiasi altra cosa, non può essere soltanto sua. Perché lei non è sola nella vita. C'è suo marito, ci sono i genitori, la famiglia, gli amici… Lei ha figli, sì? Tante persone che le vogliono bene. Non cerchi di proteggerle tenendole lontane: le farebbe soffrire ancora di più. Mi creda, sarà più facile sia per lei che per loro se accetta di condividere questo percorso, di avere qualcuno che combatte - o cammina - al suo fianco. E, se vuole, ci siamo anche noi». Aveva fatto un gesto con la mano a indicare le altre poltroncine della stanza. Quattro donne stavano guardando verso di lei e le avevano sorriso. «Fine del pistolotto. Mi tolgo dai piedi e chiedo scusa se ho disturbato, ma mi dispiaceva troppo vederla così. Se vuole il tè o i biscotti, basta chiedere».
Era rimasta basita, a guardare l'asta della flebo di Franca che si allontanava. Ma chi era quella? E come si permetteva di venire a darle lezioni? Lei era lì per combattere, non per fare una passeggiata! E non aveva intenzione di coinvolgere nessuno in questa guerra. Era perfettamente in grado di gestire la situazione. A modo suo. Se voleva stare sola, erano fatti suoi. Anche se voleva piangere. Maledizione, perché stava di nuovo piangendo?
Però, che grinta quella Franca! Faceva tanto la pacifista, ma si era avvicinata a una sconosciuta per farle tutti quei discorsi senza un briciolo di imbarazzo. Lei, che si sentiva tanto guerriera, non ne avrebbe mai avuto il coraggio. Chissà se anche Franca aveva pianto tanto, la prima volta.
Aveva abbassato lo schienale della poltroncina con il comando elettrico, girato la testa verso il muro e tirato su il lenzuolo. Non voleva che la vedessero. Non voleva vedere. Non voleva pensare. Gli occhi le bruciavano ancora; li aveva chiusi, e poco dopo si era assopita.
Si era riscossa quando Michela era venuta di nuovo a cambiare la flebo. Aveva la gola secca e uno sgradevole sapore metallico in bocca. L'infermiera le aveva chiesto come si sentisse. Voleva rispondere che stava bene, ma le era uscito solo un suono gracchiante. Si era umettata le labbra e aveva riprovato. «Potrei avere qualcosa da bere?».
«Ma certo!», aveva risposto Michela. Sembrava quasi sollevata di avere finalmente ottenuto una reazione. «Vuole un bicchiere d'acqua o le faccio portare un tè? Io le consiglio il tè, aiuta a togliere il sapore cattivo dalla bocca. Magari con un paio di biscotti. Qui ne avrà ancora per un'oretta, le farebbe bene mangiare qualcosa».
Il tè caldo e i biscotti le sembravano un miraggio, ma aveva paura che glieli portasse Franca, non voleva dargliela vinta. Stava per rispondere a Michela che preferiva un bicchiere d'acqua, ma si era trattenuta, dandosi della sciocca: perché rinunciare solo per dispetto a qualcosa che le faceva piacere?
«Il tè con i biscotti sarebbe perfetto, grazie». Bisognava volersi bene.
Aveva sollevato lo schienale della poltroncina e si era guardata intorno. Alcune pazienti avevano finito la loro terapia e se n'erano andate e ne erano arrivate di nuove. Il suo sguardo si era inchiodato su una poltroncina della fila opposta. C'era una ragazza più giovane di lei, quasi una bambina. Aveva un paio di occhioni azzurrissimi che illuminavano un viso da bambola privo di sopracciglia, una bandana colorata in testa. Chiacchierava animatamente con un'altra paziente, gesticolando con foga mentre spiegava, ridendo, qualcosa che riguardava l'acquisto di una borsa.
Il suo cuore aveva perso un battito. Cosa ci faceva lì una ragazzina? Non era giusto! E perché rideva? Cosa c'è da ridere nell'avere il cancro a vent'anni?
Una volontaria era arrivata con il tè caldo e i biscotti, su un vassoio da letto. Per fortuna non era Franca e non si era trattenuta a lungo, solo il tempo di chiederle se le serviva altro («No, grazie») e dirle di lasciare la tazza vuota sul vassoio, che sarebbe passata lei più tardi a ritirarla. Meno male.
Mentre sgranocchiava un biscotto, aspettando che il tè si raffreddasse un poco, lo sguardo era tornato sulla ragazza, che le aveva fatto un cenno di saluto con la mano, senza smettere di chiacchierare e di sorridere. Suo malgrado, si era trovata a ricambiare il sorriso.
Le era sembrato che il tempo non passasse mai, ma finalmente Michela era venuta a togliere anche quella terza flebo. Aveva un'altra bottiglietta in mano.
«Ancora?» Le aveva chiesto angosciata. «Pensavo fossero solo tre…»
«Questa è soltanto soluzione fisiologica per il lavaggio. Tranquilla: dura pochissimo, presto potrà andare a casa».
Era vero: meno di un quarto d'ora dopo era di nuovo in sala d'attesa, dove il marito la aspettava ansioso.
«Com'è andata?»
«Tutto bene. Andiamo a casa».
Per i primi chilometri del tragitto in auto la conversazione era stata praticamente inesistente. Suo marito aveva tentato di attaccare discorso un paio di volte, ma aveva finito per arrendersi di fronte ad un muro di silenzio. Improvvisamente, lei si era come risvegliata.
«Accosta».
«Stai male?»
«No, voglio solo scendere un attimo. Guarda, là c'è spazio: accosta, per favore».
Lui aveva fermato l'auto ed era sceso, premuroso, ad aprirle la portiera. Lei era scesa e l'aveva guardato dritto negli occhi, con le lacrime che tremolavano tra le palpebre.
«Volevo solo abbracciarti. E dirti che ti amo. E che ho paura. E che non voglio combattere, voglio vivere. E che ho bisogno di te per affrontare questa cosa, questo… viaggio».
Lui l'aveva avvolta nel più caldo degli abbracci e le aveva sussurrato all'orecchio: «Ti amo anch'io. E ho paura. E ho bisogno di te. E voglio che tu viva. E voglio camminare al tuo fianco per ogni passo. E, se serve, ti porterò in braccio. Arriverai alla guarigione, ci arriveremo insieme».
Erano rimasti così per qualche minuto, ad ascoltare ognuno il battito del cuore dell'altro, a riempirsi l'anima di tutto il coraggio che riuscivano a trovare. Poi lei aveva detto: «Torniamo a casa. Dobbiamo spiegare ai bambini che la mamma diventerà pelata come un uovo. E voglio chiamare mia madre, per chiederle di aiutarmi».
Era cominciato così, il suo viaggio nel mondo del cancro. Perché anche se prima c'erano stati esami e visite, quello era stato il primo giorno in cui si era davvero resa conto di essere una paziente oncologica.
Aveva scoperto che la metafora del viaggio le piaceva più di quella della battaglia. Per andare in ospedale si preparava lo zainetto, come quando partiva per le gite in montagna, facendosi aiutare dai bambini: la bottiglia dell'acqua, una sciarpa di cotone per proteggere le cervicali dall'aria condizionata, un libro, il tablet con gli auricolari per la musica. I viaggi per lei erano sempre stati fonte di gioia: chissà che anche da questo non si potesse tirare fuori qualcosa di buono. Sarebbe stato duro, certo, ma era determinata ad arrivare in fondo. E magari a godersi il panorama, nel frattempo.
Si era instaurata una routine fatta di analisi, visite e terapie. Di nausea, vomito e stanchezza. Di valori del sangue alterati, che ogni volta, fino all'ultimo, mettevano in dubbio la possibilità di effettuare le infusioni. Di capelli che cadevano a ciocche, fino a quando si era decisa a rasarli a zero e sostituirli con la parrucca. Più o meno quello che si aspettava.
Quello che non aveva previsto erano stati gli incontri, le relazioni che erano nate sulle poltroncine delle sale di terapia e sulle sedie blu della sala d'attesa.
C'era Franca, naturalmente, che aveva più o meno l'età di sua madre e la trattava proprio come una figlia. Ma c'era anche Roberta, la ragazza di vent'anni che si curava per un linfoma e che era diventata la mascotte del reparto. E Lorena, Evelina, Antonietta, Daria, Elena… Compagne di sventura, anzi, compagne di viaggio con cui aveva imparato a condividere paure, dolore, ma anche sorrisi.
Avevano festeggiato quando Franca era diventata nonna per la terza volta. E quando Roberta aveva passato a pieni voti l'esame di diritto costituzionale. Avevano pianto insieme quando Evelina le aveva salutate per ricoverarsi all'hospice. E poi al suo funerale. Avevano fatto il tifo per i globuli bianchi di Lorena che non volevano saperne di alzarsi. Si erano divertite al corso di trucco. Avevano preso in giro Antonietta che aveva paura degli aghi e si voltava dall'altra parte ogni volta che le attaccavano la flebo. Si erano incoraggiate e consolate a vicenda.
Un giorno Franca le aveva fatto i complimenti. «Sei stata brava ad accorgerti di quel nodulo, a fare i controlli anche se sei così giovane. Se io mi fossi ammalata quando avevo la tua età, me ne sarei accorta troppo tardi. Quella volta la mammografia non esisteva e se mi avessero parlato di autopalpazione avrei risposto che io ero una ragazza seria, certe cose non le facevo». Avevano riso tutte. «E poi, chi ci pensa al cancro quando ha trent'anni, o addirittura venti?», aveva continuato indicando Roberta. «Io sono stata fortunata, me l'hanno beccato con lo screening. Ma a voi giovani i controlli non li passano, dovete arrangiarvi. E tante non lo fanno. Sei stata brava, davvero».
Le aveva tolto un peso dal cuore. Quel tarlo insistente che la rodeva fin dalla prima diagnosi, quando aveva cominciato a rimproverarsi per non essersi accorta prima di quel nodulo, per non aver capito subito che qualcosa non andava. Le parole di Franca l'avevano fatta riflettere. Sì, forse avrebbe potuto accorgersene prima, insistere di più per anticipare l'ecografia, guadagnare qualche settimana. Ma se non avesse fatto l'autopalpazione, chissà quando se ne sarebbe accorta. Forse troppo tardi.
Ma il cancro era solo una piccola parte delle loro conversazioni: avevano discusso di libri, di film, di shopping, di lavoro, di figli, di vacanze, di vita. Paradossalmente, era più facile parlare in day hospital di argomenti che non riguardassero la malattia, piuttosto che fuori. Familiari e amici le chiedevano sempre come stava, come andavano le terapie. Nessuno si preoccupava di sapere quale libro stava leggendo oppure com'era andato il primo giorno di scuola o di asilo dei bambini. In quelle stanze che odoravano di medicinali, in mezzo a quelle donne senza capelli, lei sentiva di non essere soltanto una malata di cancro. Era ancora una donna, una mamma, una moglie, una figlia, un avvocato. Aveva ancora una vita. E voleva farla durare più a lungo possibile.
Dopo i cicli di chemioterapia era arrivato il momento dell'intervento chirurgico. Aveva pianto di nuovo davanti alle cicatrici di quello che restava del suo seno, ma poi le era tornata in mente una frase di Elena: "Io sono molto di più delle mie tette!". Giusto, lei era di più. E sapeva che più avanti avrebbe potuto fare la ricostruzione. Si era asciugata le lacrime. Il viaggio continuava.
Aveva ritrovato Franca e Daria in radioterapia, un incontro tra amiche che aveva riempito di risate la sala d'attesa, sotto gli sguardi prima sorpresi e poi divertiti degli altri pazienti.
Ma in radioterapia aveva fatto anche un altro incontro: Davide, un bambino di otto anni, l'età del più grande dei suoi figli. Due occhi immensi e cerchiati di viola in un visino pallido, sotto un berretto da baseball. Quando aveva incrociato quegli occhi, qualcosa si era spezzato dentro di lei. Aveva cercato con lo sguardo l'infermiera, in una domanda muta. Lei aveva fatto cenno di no con la testa.
Davide stava uscendo con la sua mamma dalla stanza colorata riservata ai bambini. Parlavano di un papero, e ridevano. Lei li aveva fissati, esterrefatta: come poteva ridere, quella donna, mentre suo figlio stava morendo?
L'aveva chiesto a Franca, dopo, e l'amica si era stretta nelle spalle, senza rispondere. Probabilmente pensava ai suoi nipotini.
Dieci minuti più tardi, mentre prendeva un caffè al distributore automatico, aveva visto con la coda dell'occhio la mamma di Davide che si avvicinava. Aveva fissato ostinatamente lo sguardo sulla macchinetta, per non guardarla.
«A Davide è stato concesso poco tempo». La voce dietro di lei l'aveva sorpresa, stava quasi per lasciar cadere il bicchierino del caffè che aveva appena prelevato dal distributore. «Io sto cercando di riempire questo tempo di risate, invece che di lacrime».
Si era girata con gli occhi bassi, vergognandosi dei suoi pensieri di poco prima.
La mamma di Davide l'aveva guardata, con un sorriso triste. «Piango, sa? Tanto. Ma cerco di non farlo mai davanti a lui».
«Ha ragione, ha perfettamente ragione. Fa benissimo». Non si era mai sentita così mortificata. «È che… ho un bambino della stessa età e io… io non credo che ce la farei. Lei è davvero brava. Speciale. Davvero».
«No, non sono speciale. Sono solo una mamma. Faccio quello che fanno tutte le mamme. Cerco di fare in modo che mio figlio sia felice, più felice possibile, per più tempo possibile. Se ci pensa, sicuramente è quello che fa anche lei».
Quella semplice verità l'aveva colpita con una tale forza da lasciarla senza fiato. Quella donna, sconosciuta fino a pochi minuti prima, era diventata un'altra compagna di viaggio. Si chiamava Giulia. Le aveva offerto il caffè ed era rimasta ad ascoltarla mentre raccontava di Davide, dei suoi giochi preferiti e delle favole che inventava per lui. Quella sera, a casa, aveva pianto a lungo tra le braccia di suo marito. Piangeva per Davide e per Giulia che lo accompagnava, ridendo, nel suo viaggio troppo breve.
La settimana seguente era tornata al day hospital per la visita di controllo con l'oncologo. La sala d'attesa con le sedie blu ormai le era diventata familiare e si sorprese a pensare a quante cose fossero cambiate da quel giorno di sette mesi prima, dall'inizio del suo viaggio. Davvero erano passati solo sette mesi? Si sentiva così diversa da quella donna che cercava di non farsi vedere piangere, che le pareva fosse trascorsa una vita intera.
Aveva imparato più cose in quei sette mesi che in sette anni di vita "normale". Aveva smesso di combattere e iniziato a camminare, con più ostinazione che rabbia. Aveva deciso che il desiderio di guarire doveva essere più forte della paura di non farcela. Aveva cominciato ad ascoltarsi e a rispettare di più il suo corpo. Aveva scoperto inaspettati motivi per sorridere anche nelle situazioni più difficili. Le era arrivato più aiuto di quanto ne avesse chiesto, talvolta anche da dove non se lo sarebbe mai aspettato.
Aveva incontrato persone fantastiche. Ognuna delle sue compagne di viaggio le aveva regalato qualcosa di prezioso: comprensione, appoggio, ironia, speranza, saggezza. Avevano riso e pianto insieme, senza vergognarsi. Alcune continuavano a camminare al suo fianco, per altre il viaggio si era interrotto. Tutte avevano un posto nel suo cuore.

La voce dall'altoparlante che chiamava il numero trentasette l'aveva riportata alla realtà. Aveva visto una giovane donna alzarsi con l'aria smarrita di chi non sa dove andare. Le si era avvicinata, sorridendo: «Prima chemio? Venga, la accompagno io».

                                                

2° classificato al concorso letterario nazionale "Scriviamoci con cura. Un racconto per levare l'ancora con la scrittura" promosso dall'Istituto Nazionale Tumori CRO di Aviano, edizione 2014

Dedicato alle mie compagne di viaggio. Soprattutto ad Anna.



20 commenti:

  1. Mia, non ci sono commenti all'altezza del Tuo scritto...o perlomeno sono io che non ne ho.
    Mi sono scese le lacrime nel passaggio "Io preferisco pensare che sia un cammino, una strada. Perché non mi piace l'idea della guerra. Guerra contro chi, poi?
    Ricordo le parole di un post di Anna...
    Grazie Mia. rita

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    1. Anna mi ha insegnato tante cose: questa è la più importante e ci tenevo tantissimo a condividerla

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  2. e' incredibilmente bello.

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  3. Mia, non c'e' una parola, nel tuo racconto, che non arrivi a sfiorare l'anima. Grazie

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  4. Ti odioooooooooooooooooooo!!!
    Sniff...

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  5. Bello. Tanto bello da leggere, anche se parla dì qualcosa che spaventa è bello, sa di forza, tenacia, solidarietà. Sa di trovare il buono anche nelle situazioni veramente tragiche. Che grande insegnamento!

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  6. Da brividi! Bravissima Mia.

    Lina

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  7. Mia dovresti metterti a scrivere a tempo pieno....ho gli occhi pieni di lacrime ma mi ha fatto così bene leggere il tuo racconto...e come tuo marito anch'io ci ho ritrovato tanto di ZiaCris,Romina, Anna Lisa,Mamigà e soprattutto di Anna.....brava Mia e ...GRAZIE!!

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  8. è veramente meritato il premio!!!!
    un racconto commovente, che raccoglie i sentimenti più intimi e le iniziali frustrazioni di chi percorre la via della conoscenza vera e profonda di sè.
    complimenti, lilly

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  9. Complimenti Mia, è davvero un racconto bellissimo!

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  10. ...mentre leggevo immaginavo ogni momento..........grazie Mia.
    4p

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  11. senza fiato....che dire...mai banale

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  12. Semplicemente emozionante. Tanta dura realtà quanta forza d'animo, coraggio e esempio per tutti. Grazie ...veramente grazie

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  13. Grazie Mia, non solo è scritto benissimo, ma mi ha emozionato, ho rivissuto tanti momenti del mio viaggio. Un abbraccio, Leo

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