lunedì 15 aprile 2013

Spiegare per comprendersi

Un'amica sta affrontando proprio in questo periodo l'impatto devastante con una diagnosi di cancro.
Cerco di aiutare, come posso, offrendole le informazioni e i suggerimenti pratici che penso possano essere utili.
Qualche giorno fa, mi parlava dei momenti di sconforto che ogni tanto, inevitabilmente, arrivano. Non credo si possano evitare: la prospettiva di un periodo più o meno lungo di terapie dagli effetti collaterali pesanti e la consapevolezza che anche nei casi di prognosi più favorevole (e il suo potrebbe rientrare fra questi) esiste qualche probabilità di insuccesso non sono cose che si possono ignorare.

Nella ricerca di qualche suggerimento per affrontare la situazione senza  lasciarsi sopraffare, mi sono trovata ad analizzare la mia esperienza, a scavare nei ricordi per capire cosa mi ha creato maggiori difficoltà e cosa invece mi ha aiutato. La necessità di spiegare, mi ha obbligata a comprendermi.
Ancora una volta, lo sforzo di tradurre in parole i grovigli di pensieri li ha resi più comprensibili anche a me stessa, come accade sempre quando scrivo qui. Non per niente su Oltreilcancro abbiamo inventato il termine blogterapia...
Il risultato di questa autoanalisi non è stato del tutto scontato, ne è emerso qualcosa su cui effettivamente non  mi ero mai soffermata prima.

Identificare quello che mi ha messo maggiormente in difficoltà è stato facile.
In tutta la mia esperienza di malattia, ho pianto due volte, entrambe per lo stesso motivo e nell'arco di pochi giorni. Ne avevo parlato qui.
Erano gli ultimi giorni di chemioterapia, quando la nausea non mi dava tregua, al punto che non riuscivo più nemmeno a bere e sono dovuta andare al Pronto Soccorso per una terapia idratante. Ero debolissima, faticavo a reggermi in piedi e in fila davanti a me c'era uno straniero che insisteva per accedere al servizio di emergenza per un semplice caso di tosse. Vedendomi sul punto di svenire, una signora che era lì per accompagnare una parente è corsa a prendermi una sedia a rotelle, rimproverando contemporaneamente gli operatori sanitari per non essersi resi conto del mio stato. Questo gesto gentile mi ha salvato dal crollo fisico (letteralmente: probabilmente mi sarei schiantata al suolo entro trenta secondi), ma ha innescato quello psicologico, mettendomi di fronte a tutta la mia debolezza. Ho iniziato a piangere silenziosamente, senza singhiozzi, semplicemente con un fiume di lacrime che mi inondava il viso e che non riuscivo in nessun modo a trattenere, nonostante la mia parte razionale mi avvertisse che ero disidratata e non potevo sprecare così i pochi liquidi che mi rimanevano in corpo. Posso solo immaginare l'angoscia di Renato, che dopo avermi lasciata all'ingresso del Pronto Soccorso era andato a parcheggiare l'auto: quando è arrivato in sala d'attesa, la stessa signora gli ha riferito che mi avevano fatta entrare in carrozzina mentre piangevo disperatamente...
La seconda crisi di pianto è arrivata due giorni dopo, quando mi sono sentita male mentre aspettavo il mio turno per la visita di controllo con l'oncologo, e ho dovuto chiedere alle infermiere di farmi stendere perché non ce la facevo nemmeno a stare seduta: mentre mi applicavano una flebo con il cortisone per fermare la nausea, piangevo come una fontana.
In entrambi i casi, la causa delle lacrime è stata l'umiliazione di non farcela, di dover chiedere aiuto a persone che non appartenevano alla cerchia intima di familiari ed amici, di mostrare la mia debolezza a estranei.
Il suggerimento che ho dato alla mia amica quindi è stato di ascoltarsi, di prestare attenzione ai messaggi del suo corpo, di accettare l'idea che i propri limiti, almeno per un periodo, saranno più restrittivi e di  chiedere aiuto alle persone vicine, quelle con cui non ci si sente in imbarazzo, prima di trovarsi in situazioni di emergenza con estranei.

Ho dovuto riflettere un po' di più per capire invece come mai io abbia pianto soltanto quelle due volte che, a quanto mi dicono altri che hanno attraversato esperienze simili, sono davvero poche.
Non una lacrima quando ho avuto la prima diagnosi, né alla recidiva, né quando mi sono caduti i capelli, né alla notizia che la radioterapia mi avrebbe danneggiato i nervi della gamba, né quando ho saputo che non avrei mai potuto avere figli, né quando il chirurgo mi ha rivelato c'erano state infiltrazioni della massa tumorale nei tessuti circostanti... Ho incassato quasi senza battere ciglio.
Ok, evidentemente non sono tanto normale, ma dalla figlia della Maria ce lo si poteva anche aspettare...
Questa però è una spiegazione piuttosto semplicistica e di sicuro di nessun aiuto per la mia amica. Dovevo scavare un po' più a fondo.
Ho trovato alcuni elementi interessanti, anche se non totalmente esportabili perché molto individuali, relativi a due aspetti che di solito creano particolare ansia e sofferenza ai pazienti oncologici: l'idea della morte e i cambiamenti fisici collegati alla malattia e alle terapie.

Non ho mai negato la prospettiva della morte, non solo durante la malattia, quando è abbastanza scontato che ci si confronti con questo pensiero, ma anche prima, in tempi non sospetti, quando stavo benissimo. Ho sempre saputo che prima o poi la mia vita sarebbe finita e, pur augurandomi che fosse poi, mi era ben chiaro che non necessariamente avrei avuto voce in capitolo sulla questione.
Fin da quando mi è stata presentata per la prima volta l'ipotesi del cancro, l'idea di morire giovane mi è apparsa quindi decisamente seccante, ma non aliena perché era qualcosa con cui in qualche modo, almeno a livello filosofico, avevo già fatto i conti.
Mi rendo conto però che questo è scarsamente utile per qualcuno, e credo siano la maggioranza, che arrivi ad affrontare una diagnosi di cancro senza aver fatto precedentemente questi ragionamenti.

La questione dell'immagine forse è più facilmente condivisibile.
Per me, avere l'aspetto da malata non è mai stato un problema.
Non posso dire che perdere i capelli non mi abbia fatto né caldo né freddo, perché era inverno e di freddo ne ho patito tanto, tantissimo. Però non mi ha creato assolutamente problemi psicologici. Né lo hanno fatto le occhiaie fino alle ginocchia e il colorito così pallido che per Halloween avrei potuto vincere il premio "Zombie dell'anno" senza nemmeno bisogno di truccarmi.
Molti pazienti oncologici soffrono nel vedersi cambiati fisicamente, non si riconoscono più. Come mai io no?
Credo che dipenda dal fatto di non aver mai considerato la mia identità coincidente con il mio corpo: io sono profondamente convinta che il mio corpo sia solo una parte di me e sicuramente non la più importante.
Ritengo che avere questa consapevolezza possa essere di aiuto per affrontare i cambiamenti che la malattia e le cure possono provocare ed è proprio questo che ho suggerito alla mia amica.