mercoledì 29 luglio 2020

Racconti ritrovati

Oggi mi sono venuti in mente un paio di racconti brevi che avevo scritto qualche anno fa per il concorso letterario "Il classico scritto da me" organizzato dall'Associazione I ragazzi della panchina di Pordenone: In 3000 battute si doveva reinterpretare in modo originale il titolo di un libro famoso.
Mi sono divertita a scriverli, il secondo è nato di notte, l'ho scritto di getto sul cellulare e inviato quasi senza correzioni. Mi avevano chiesto di partecipare anche l'anno scorso, ma la degenza ospedaliera non favoriva la creatività, non sono riuscita a trovare l'ispirazione.
Non avevo inserito subito i racconti nel blog perché dovevano restare inediti fino alla pubblicazione da parte dell'Associazione, è passato un po' di tempo e ho finito per dimenticarmene. Rimedio ora.

Cent'anni di solitudine
La sostituzione
(2017)
Ascoltava il ronzio sommesso dei motori dell'astronave. No, non era vero: i motori quasi-luce sono assolutamente silenziosi, non ronzano, ma a lui piaceva pensare che lo facessero, per avere l'idea del movimento.
Si era stancato di guardare fuori dall'oblò dopo i primi cinque anni, anche se tornava ad ammirare il panorama di tanto in tanto, quando si avvicinava a qualche corpo celeste. Dopo dieci anni aveva smesso di guardare anche gli schermi di navigazione. Anche la palestra gli era venuta a noia, ma continuava ad andarci tutti i giorni perché era necessario per superare il check up medico.
Ogni giorno dedicava tre ore ai test di funzionamento dei sistemi della nave. Era arrivato quasi al punto di desiderare che ci fosse un guasto, così, solo per avere un diversivo.
Si era imposto di guardare al massimo due film al giorno: ne aveva circa centomila e probabilmente almeno un quarto faceva schifo, quindi se fosse riuscito a mantenere il ritmo, ne avrebbe avuti di nuovi per un centinaio di anni. Con i libri era più facile: in memoria ne aveva più di tre milioni, non c'era bisogno di razionarli. Anche la musica era quasi illimitata e si poteva anche riascoltare.
Spesso, però, lui preferiva il silenzio. Passava ore ad ascoltare i suoi stessi pensieri, a lasciarli correre liberi, per vedere dove sarebbero andati a finire e ogni volta riuscivano a stupirlo. Era meglio del cinema.
All'inizio aveva affrontato con entusiasmo il diario quotidiano, orgoglioso di lasciare una traccia di quel viaggio epico verso un nuovo mondo, un pianeta su cui la razza umana avrebbe potuto sopravvivere. Ormai però erano più di cinquant'anni che la maggior parte delle pagine riportava un laconico "niente da segnalare".
Dopo 36.428 giorni aveva deciso di averne abbastanza. Niente test, niente palestra, niente check up, niente film. Tanto, li aveva quasi finiti.
Lo specchio della cabina gli restituì un'immagine poco diversa da quella di novant'anni prima. La pelle era meno compatta e c'era un accenno di rughe sulla fronte e agli angoli degli occhi, ma non era cambiato molto. Probabilmente avrebbe avuto ancora una cinquantina d'anni, se avesse voluto. Ma non voleva, non così.
Si sedette per l'ultima volta davanti alla postazione di comando e compilò con cura l'ultima pagina del diario, poi inserì un codice e per cinque volte fornì la conferma richiesta. Rimase lì, a immaginare il rumore dei motori, mentre l'astronave attivava la procedura di sostituzione.
Nella stiva, la spia di una delle settantamila capsule di sopravvivenza iniziò a lampeggiare, mentre il corpo al suo interno veniva riportato alla temperatura normale e risvegliato da un sonno durato cent'anni.
Un cicalino lo avvertì che il suo sostituto era uscito dall'ibernazione e aveva superato il check up medico. Diede un ultimo sguardo intorno a sé per assicurarsi di aver lasciato tutto in ordine e augurò mentalmente buon viaggio al nuovo pilota e all'astronave con il suo carico di speranza, poi digitò ancora una volta il codice di sicurezza e ritirò la capsula che l'avrebbe addormentato per sempre.




venerdì 17 luglio 2020

L'amore perfetto

L'amore perfetto esiste, lo so per certo.
È quello che avvolge il cuore, che rispetta, protegge e non ferisce mai, perché il tuo dolore è anche mio. Quello che condivide senza legare, che dà senza chiedere.


Era il 17 luglio del 1989, avevo vent'anni, studiavo all'università. Appena ti ho visto, è scattata la scintilla, ho capito subito che tra noi due c'era qualcosa di magico: ci eravamo scelti.
Nelle settimane successive ho inventato mille scuse per vederti, per passare ogni giorno un po' di tempo con te, mentre imparavamo a conoscerci, dapprima timidi e impacciati, poi sempre più sicuri, mentre i nostri cuori trovavano lo stesso ritmo.
Non c'è stato bisogno di tanti discorsi: due mesi dopo vivevamo insieme. 
Ricordo benissimo la prima notte nel mio letto, con i nostri corpi che si adattavano l'uno all'altro senza sforzo in curve armoniose, un incastro perfetto. Svegliarsi al mattino guardandoci negli occhi: io ci sono, tu ci sei. Il vuoto delle notti in cui dormivamo separati, io a Padova per l'università e tu a Portogruaro; ti sognavo, in quelle notti, sempre, e ripartivo appena finiva l'ultima lezione, per non perdere nemmeno un'ora con te.

E tu c'eri sempre.
L'esame orale di elettrotecnica era durato quattro ore, ero arrivata a casa tardissimo, con l'ultimo treno. Avevi camminato avanti e indietro per ore, preoccupato per il mio ritardo.
La tesi di laurea, preparata quasi sempre di notte perché in quelle ore la mia creatività dà il meglio. Tu dormivi, ma vicino a me.
La varicella, a ventisei anni: sei rimasto con me ogni giorno e ogni notte, quasi dimenticando di mangiare.
Io che arrivavo con il raffreddore e qualche giorno dopo starnutivi anche tu.
Dormire sempre vicini, d'inverno abbracciati stretti e quando invece faceva caldo toccandoci appena, ma sempre con almeno un punto di contatto.
Perdermi nei tuoi occhi, perderti nei miei occhi. Chiamarci e rispondere, sempre. Sapere che eravamo la cosa più bella che potesse capitarci.

E poi la malattia, la tua.
Tutti i tentativi possibili di trattenere la vita che ti abbandonava, ma la diagnosi era senza scampo, abbiamo avuto solo poche settimane per dirci addio.
Ma in dieci anni ci eravamo già detti tutto quello che serviva, non avevamo mai perso un'occasione per dimostrare quanto fossimo importanti l'uno per l'altra.
L'amore perfetto è senza rimpianti, perché non si poteva amare più di così. 

Buon compleanno, George.


sabato 11 luglio 2020

Diario felino - Innamorato

Caro diario,
Sono in questa casa da sei settimane, insieme a mia sorella e mi trovo molto bene.
Fergus è diventato il nostro fratello maggiore: gioca con me e Penelope, ci lava e dormiamo insieme tutti azzampati . Aki non dà confidenza, fa il gatto-orso, però non ci ha mai trattati male. Gli umani ci danno da mangiare ogni volta che lo chiediamo, ci fanno un sacco di coccole e ci lasciano dormire dove vogliamo.


Possiamo uscire in giardino quando ci pare e ci sono mosche da rincorrere, alberi per arrampicarsi e cespugli per nascondersi: un paio di giorni fa Penny è rientrata tutta profumata di salvia, l'umana ha detto che era pronta per il forno, ma non so cosa vuol dire. Abbiamo anche un tiragraffi grandissimo e tanti giochi: palline, topini di stoffa, scatoloni, ciabatte, piedi degli umani... Un vero spasso!

Ieri sera però le cose sono cambiate all'improvviso.
Nel pomeriggio io e Penelope eravamo andati dal veterinario per la vaccinazione, siamo stati bravissimi, e alla sera eravamo un po' abbacchiati, perché la puntura fa male; quando gli umani sono usciti, subito dopo cena, ce ne siamo rimasti buoni buoni sul tiragraffi.
Gli umani sono tornati molto tardi, con il nostro trasportino, e l'hanno appoggiato sul pavimento. Io e Penny siamo scesi dal tiragraffi per andare a salutarli, ma quando siamo arrivati vicino, ci siamo fermati, interdetti: stava uscendo un robo peloso con gli occhi a mandorla.


Era molto spaventato, soffiava e faceva il codone, allora ci siamo fermati e seduti, in modo amichevole, perché capisse che non volevamo fargli del male. Subito è arrivato anche Fergus, anche lui amichevole, ma il robo peloso aveva paurissima, così gli umani l'hanno tenuto in braccio per rassicurarlo.
Stavo già pensando che era un peccato che non avessimo fatto subito amicizia, quando dal trasportino è sbucato un musetto grigio con gli occhi più meravigliosissimi del mondo.


Si è guardata intorno mentre io la guardavo, incantato, poi è andata un po' in giro per la stanza, e io dietro. Gli umani le hanno mostrato dov'è la lettiera, e io dietro. Ha iniziato a giocare con lo scatolone e io ho provato ad avvicinarmi: ha arruffato un po' il pelo, ma non mi ha mandato via. Un quarto d'ora dopo era già padrona di casa e giocavamo insieme come se ci conoscessimo da sempre. Quando si è stancata, l'ho lasciata riposare sul divano con l'altro, mi hanno detto che è suo fratello.



Dopo quelle grandi emozioni, abbiamo dormito insieme sul divano, loro, Penelope, io e anche l'umana, e stamattina eravamo tutti più tranquilli. Anche il robo ha iniziato a giocare, soffia ancora a Fergus e Aki, ma non fa più il codone; loro hanno capito che ha soltanto paura e non insistono. Abbiamo giocato, dormito, mangiato, giocato di nuovo, dormito...
E lei... lei è meravigliosa: credo di essermi innamorato.



Edison

P.S. L'umana ha detto che adesso ha pensieri felici a sufficienza.

mercoledì 8 luglio 2020

È più forte di me

Non c'è niente da fare, non riesco proprio a farne a meno, mi viene spontaneo, ormai è un riflesso condizionato.
Capisco che può sembrare inappropriato, oggi è successo a un funerale e magari non era proprio il contesto più adatto.
Qualcuno ci rimane male, quasi tutti restano interdetti. Fatevene una ragione.

A chiunque mi chieda "Serve una mano?" io non riesco a fare a meno di rispondere: "Magari una gamba, grazie!"


domenica 5 luglio 2020

Statistica e logica aristotelica

Premessa maggiore
In una distribuzione statistica di tipo discreto uniforme applicata ad un insieme di due eventi, ciascun evento ha esattamente il 50% di probabilità di verificarsi

Premessa minore
La probabilità di trovare il bugiardino aprendo alla cieca una scatola di compresse ha una distribuzione statistica di tipo discreto uniforme

Conclusione
La statistica non funziona