mercoledì 23 giugno 2021

Breve storia triste

Oggi, per la prima volta da quando l'ho comprata, ho fatto lavare la macchina.

Stasera siamo andati con la mia macchina a Oderzo per una lettura di poesie.


È piovuta sabbia.

Fine.

domenica 20 giugno 2021

Amarcord

Talvolta situazioni apparentemente insignificanti possono cambiare radicalmente il corso della nostra vita. 
Qualche giorno fa, per una di quelle curiose associazioni di idee che generano risultati completamente inattesi, mi è venuto in mente un ragazzo che ho conosciuto da bambina. Una conoscenza superficiale, che però in qualche modo ha determinato alcuni eventi fondamentali della mia adolescenza.

Devo aver avuto otto o nove anni quando l’ho incontrato la prima volta, alle prove del coro della parrocchia. 
Ero stata arruolata nel coro per un equivoco. A catechismo dovevamo imparare i canti per la messa della Prima Comunione; ci avevano detto che se qualcuno voleva entrare nel coro, bastava che si presentasse al maestro un po' prima delle prove. Un giorno, al mio arrivo l'aula di catechismo era vuota, così ero andata a vedere se gli altri bambini fossero già nella cappella. No: probabilmente ero io in anticipo. C'era invece il maestro del coro, un uomo profondamente buono, che aveva pensato che fossi lì per unirmi ai cantori ed era così felice che qualcuno avesse raccolto il suo invito, che non avevo avuto cuore di contraddirlo. 
I canti erano tradizionali, molti in latino, alcuni affondavano le loro radici addirittura nel gregoriano medievale. Vecchiotti, noiosetti, certamente non in grado di appassionare una bambina che amava giocare a calcio e arrampicarsi sugli alberi. 


Ma poi avevo trovato qualcosa che mi dava maggiore soddisfazione di Kyrie eleison e T'adoriam ostia divina: leggere durante la messa, quella solenne delle dieci e mezza, a cui partecipavano, quarant’anni fa, moltissime persone. Mi piaceva leggere in chiesa, non sono mai stata intimidita dal parlare in pubblico, anzi, speravo sempre che mi assegnassero i brani più lunghi. Il compito più ambito erano le introduzioni, perché erano tante e distribuite per tutta la durata della funzione. Il più sfigato, invece, l’intermezzo dell'alleluia: un unico verso. Non mi piaceva tanto nemmeno la seconda lettura, ho sempre trovato noiosi gli Atti degli Apostoli e strampalata l'Apocalisse, mentre la prima lettura, dall’Antico Testamento, di solito era più interessante; anche i Salmi non erano male. 
Non c’erano tantissimi bambini disposti a leggere in pubblico, quindi mi toccava qualcosa quasi ogni domenica, ma qualche volta, nella rotazione dei turni, capitava di saltare una settimana. 
Anche il nonno veniva alla messa delle dieci e mezza. Non avevo mai pensato che potesse essere interessato alle mie performance di lettura, ma una domenica in cui non avevo letto nulla, a pranzo mi chiese come mai e si raccomandò che leggessi la settimana successiva. Quel giorno mi resi conto di quanto fosse orgoglioso di vedermi ogni domenica sull’altare maggiore. 

Ma torniamo al filone principale di questa storia. 
Tra i ragazzi del coro ce n'era uno, di qualche anno più grande di me, che fin dal nostro primo incontro aveva iniziato a prendermi in giro per un mio difetto di pronuncia sulla lettera S. 
Non so nemmeno se conoscesse il mio nome: lui mi chiamava Sassari, anzi, Sciassciari, per imitare la mia pronuncia. Già allora avevo un bel caratterino e queste prese in giro non erano certo sufficienti a compromettere la mia autostima, tuttavia erano abbastanza per rendermi poco gradevole quell'ambiente, anche perché nessuno tra gli educatori o i ragazzi più grandi, si era mai preso la briga di farle cessare, e questo mi faceva pensare che a nessuno, lì, importasse nulla di me. 
Dopo la cresima, completato il ciclo del catechismo obbligatorio, il cappellano mi propose di entrare a far parte di uno dei gruppi giovanili della parrocchia. Naturalmente rifiutai. 

Presi le distanze da quel contesto a cui non sentivo di appartenere, e l'anno successivo, quando iniziai a giocare a pallavolo con la prima squadra, feci amicizia con numerose ragazze e ragazzi provenienti da un'altra parrocchia. Iniziai a frequentare quel gruppo e ci rimasi fino all’ultimo anno di liceo. 


Nella chiesa di don Domenico, le messe erano animate con canti  vivaci e coinvolgenti, accompagnati dal suono delle chitarre e dal ritmo della batteria. Nel giro di un paio d’anni avevo imparato a suonare la chitarra abbastanza bene da potermi unire al gruppo dei musicisti, cantavo nel coro dei giovani, suonavo per il coro dei bambini, partecipavo ai campi estivi in montagna, collaboravo all'organizzazione del grest e di altre attività dell’oratorio. 

Quell’esperienza, insieme allo sport di squadra, è stata fondamentale per farmi diventare quella che sono. 
Mi ha fatto uscire dal mio guscio solitario di figlia unica e scoprire il senso di comunità, mi ha insegnato la gioia - e la fatica - della condivisione, mi ha aperto gli occhi sul mondo del volontariato, mi ha insegnato tanto su me stessa e sugli altri.
Ho conosciuto persone che sono state importantissime per me, alcune solo per qualche anno, altre ancora oggi. Ho vissuto esperienze indimenticabili.
È durata cinque anni, il tempo del liceo, poi una crisi spirituale mi ha allontanato prima dalla Chiesa e poi dalla religione, senza però incrinare la struttura di valori morali e sociali su cui avevo costruito quell'esperienza: ho perso la fede, ma ho conservato intatta l’etica. 

Non rimpiango nemmeno un giorno di quel periodo, li ricordo anzi con nostalgia. 
Le giornate del grest, che iniziavano al mattino presto e finivano alla sera dopo cena, per programmare con gli altri animatori le attività del giorno dopo. Le veglie di preghiera nella cripta. Le settimane a Sauris, i bagni nell'acqua gelida del lago, le passeggiate alla diga, i turni in cucina, le partite a Risiko, le canzoni sotto il portico della chiesetta e le notti tempestate di stelle. 


I primi amori, quasi tutti rigorosamente non ricambiati. La grande casa di Fusine. La perpetua brontolona, che però bastava prenderla per il verso giusto. Gli accordi delle canzoni da imparare. Le sere tutti insieme in gelateria. Le confidenze, i pettegolezzi e le gelosie. Le gite in bicicletta fino al Tagliamento a Pasquetta e San Marco. Le prove strumentali che finivano sempre per scivolare nel rock. Le famiglie accoglienti, di cui invidiavo la normalità. Disegnare i cartelloni per il teatro e le scenografie per i concerti. Le domeniche al mare. Le partite di calcio femminile. La messa della notte di Natale. Le partite a tennis nel campo dell'oratorio, a luglio, sotto il sole di mezzogiorno. La sensazione di essere, finalmente, parte di qualcosa. 

È stata un’opportunità straordinaria, che forse non avrei mai avuto, se non ci fosse stato quel ragazzo che mi prendeva in giro per la mia S.

sabato 12 giugno 2021

La realtà che supera la fantasia

Ho avuto un grande amore nell'adolescenza, assoluto e totalizzante come tutti gli amori dell'adolescenza. È durato tredici anni. È stato esaltante, difficile, faticoso, meraviglioso. Mi ha fatto esultare, ridere, soffrire, qualche volta piangere. 
Pensavo che sarebbe durato per sempre, invece a un certo punto, qualcosa si è spezzato, non ce l'ho più fatta ad andare avanti. Mi ricordo ancora la sofferenza di quell'ultimo giorno, me la sono portata dietro per anni, dopo.
Quando l'arbitro ha fischiato la fine del set, ultima partita di campionato, vittoria per noi, sapevo che era finita: la mia schiena aveva detto definitivamente "basta". Ho pagato anni di allenamenti troppo intensi, in cui avevo cercato di compensare con la volontà ciò che la natura non mi aveva dato: altezza, velocità, elevazione.


Non sarei nemmeno dovuta essere in campo, quell'anno, dovevo solo fare da seconda allenatrice, ma a metà stagione la squadra era decimata da infortuni e ritiri, per una partita si erano ritrovate solo in cinque, non meritavano di finire sconfitte a tavolino. 

Ero arrivata alla pallavolo, come tantissime ragazzine della mia età, attirata dai cartoni animati giapponesi. Le prime serie con protagonista Mimì Ayuhara erano state trasmesse con il titolo Quella magnifica dozzina. A casa dei miei nonni, dove abitavo, non si vedevano ancora le reti private e quasi ogni giorno prendevo la bicicletta per andare a vederlo a casa della zia, nel paese vicino. 


Nelle stagioni successive il titolo divenne Mimì e la nazionale di pallavolo e la nonna decise di installare l'antenna per le TV private, così potevo finalmente guardarlo da casa. Qualche anno più tardi arrivarono anche Mila e Shiro - Due cuori nella pallavolo.
Dal punto di vista tecnico, la pallavolo di quei cartoni animati era fantascienza: salti stratosferici, schiacciate come missili, difese acrobatiche. Quello che c'era dietro, invece, era una rappresentazione realistica dello sport sano: lavoro duro, spirito di squadra, orgoglio, dedizione, lealtà e correttezza. Lezioni che non ho mai dimenticato.

Prima della pandemia con Renato eravamo tornati al palazzetto a seguire qualche partita della squadra locale, negli ultimi mesi ci siamo dovuti accontentare delle dirette televisive, soprattutto di pallavolo femminile, che rispetto agli anni ottanta si è evoluta tantissimo: battute velocissime, muri vertiginosi, attacchi potenti, difese spettacolari. 
In questi giorni stiamo seguendo la Volley Nations League, in cui l'Italia femminile schiera una straordinaria squadra B, mentre le titolari si allenano per le Olimpiadi: abbiamo visto azioni che non hanno nulla da invidiare ai cartoni animati di Mimì: dopo quarant'anni, la fantascienza è diventata realtà, e anche di più.