martedì 31 dicembre 2013

Panico di fine anno

Aki e Gandalf hanno imparato a usare la gattaiola per entrare e uscire dalla cucina verso il giardino sulla parte anteriore della casa.
Gandalf ha anche imparato a uscire dalle sbarre della recinzione, mostrando una totale incoscienza: prima ha attraversato la strada e si è infilato allegramente sotto la mia auto, che era parcheggiata dal lato opposto, poi ha fatto un giretto sotto la macchina con il motore acceso di un vicino che si era fermato davanti a casa nostra per fare due chiacchiere. Valutata la situazione, abbiamo deciso di chiudere immediatamente la gattaiola.
Gandalf era inconsolabile, continuava a cercare di uscire di nuovo, così abbiamo proposto a lui e ad Aki un giretto nel giardino posteriore, più grande e ricco di attrazioni feline come cespugli, foglie e la catasta della legna da ardere, ma soprattutto affacciato sui campi e dotato di recinzione con rete a maglie troppo piccole perché Gandalf le possa attraversare.

Dopo un po' sono uscita a dare un'occhiata, per vedere come se la stavano cavando.
Non erano in vista, né sul prato né sotto il portico.
Ho immaginato che si fossero infrattati sotto i viburni. No.
Sotto il mirto? No.
Sotto l'iperico? No.
La potentilla? No.
Li ho chiamati più volte. Nessuna risposta e nessun musetto che faceva capolino.
Sempre più preoccupata, sono andata a controllare in fondo al giardino, scoprendo che il fosso che si trova appena al di là della rete, solitamente secco, era invece colmo d'acqua per le piogge dei giorni scorsi.
Ho iniziato ad agitarmi: che avessero già imparato a scavalcare la rete e fossero finiti in acqua? So che per un gatto adulto non è un problema arrampicarsi sulla rete, ma escono in giardino due o tre volte al giorno e non li avevo mai visti nemmeno tentare...
Intanto continuavo a chiamarli e a guardare nel campo.
Magari in mezzo alle stoppie? No.

Panicopanicopanico.

Andare a cercarli nel campo? Ok, vado a prendere gli stivali.
Intanto Jack, il boxer dei vicini, mi guardava dall'altra parte della rete.
Jack, dove sono? Li hai visti tu?
Jack mi guardava. Anzi, no. 
Non guardava me, guardava alle mie spalle, un po' più in alto...




Sospiro di sollievo. Ma accidenti a voi, gattume, almeno un miao per farvi trovare, no?
Mi sembravano in difficoltà, così sono andata a recuperare la scaletta per aiutarli. Dopo averla piantata saldamente nel terreno fangoso, sono salita per acchiapparli e dopo qualche tentativo a vuoto, sono riuscita a far scendere prima Gandalf e poi Aki.
Il tempo di scendere dalla scaletta e disincastrarla dal fango ed entrambi si erano già arrampicati sull'altro albero.


A quel punto ho deciso di lasciarli lì: scendessero da soli!
Aki ci è riuscito dopo pochi minuti, Gandalf ci ha messo un po' di più, ma alla fine è sceso anche lui e poi è risalito, sceso, risalito...
Entrambi hanno deciso che gli alberi veri sono un bellissimo luna-park, quasi meglio di quelli finti.


Ah, felice 2014 a tutti!
Se vi porta anche solo metà della gioia e dell'amore che ci stanno regalando questi due pelosetti, sarà fantastico!


domenica 22 dicembre 2013

Indecisa

Entro in doccia. C'è qualcosa di diverso dal solito, ma non capisco cosa.
Il portaoggetti? Sì, è nuovo, ma ormai è qui da una decina di giorni, non può essere quello ad avermi colpito.
Gandalf all'esterno della cabina doccia che si spalma contro il vetro? No, nemmeno questa è una novità.
E allora, cosa? Cos'è questa differenza, questa stranezza che solletica in modo vago ma deciso le mie percezioni?

Sono indecisa se complimentarmi con me stessa per il mio acume, perché effettivamente c'era qualcosa di strano, oppure biasimare la mia distrazione per essere entrata in doccia con gli occhiali...

giovedì 12 dicembre 2013

Bilancio felino

Un piccolo bilancio di questo primo mese o poco più di convivenza con i due minifelini, che ci ha portato diverse scoperte interessanti.

Il mondo è bello perché è vario
Non esistono due esseri viventi uguali: ognuno ha il proprio carattere, le proprie inclinazioni, la propria indole. I due gattini non fanno eccezione, a partire dall'aspetto fisico, che rispecchia piuttosto fedelmente anche le loro attitudini caratteriali.


Gandalf è un po' più grosso e ha il pelo più lungo, che lo fa assomigliare a un dolcissimo peluche. E in effetti è un micio assolutamente dolce, che fa amicizia con tutti. Ci sommerge quotidianamente di baci e carezze, alla maniera felina, strofinando il musetto e le zampine contro il nostro viso, con la ronronatrice accesa al massimo. Cerca continuamente la nostra compagnia e adora essere preso in braccio. Quando si accorge che ci prepariamo ad uscire entra in modalità "no via", piazzandosi sopra i nostri piedi e implorandoci con espressione desolata di non abbandonarlo; al nostro ritorno ci accoglie con effusioni morbide e calde. Quando dorme si abbandona al più completo relax; avete presente Sid, il bradipo che nel cartone animato L'era glaciale si addormenta sopra un masso nelle posizioni più improbabili? Uguale. Gandalf quando dorme si spalma, cosa che gli è valsa il soprannome di gatto-Nutella.


Aki invece è più snello, con il pelo liscio e lucido; è iperattivo, sempre in movimento, ma anche timido e riservato e quando ci sono estranei per casa va a nascondersi sotto al divano. Ha gli occhi sempre sgranati, in un'espressione di perenne curiosità e sorpresa. È agile e veloce, un cacciatore nato, che promette di sterminare a breve tutta la fauna dei dintorni di dimensioni compatibili con le sue. Gandalf è un gattino pulito, ma Aki è molto di più: è pulitissimo, un vero maniaco della pulizia, un ossessivo compulsivo dell'igiene. In questo momento è in un'altra stanza, ma se dovessi indovinare cosa sta facendo, la risposta che avrebbe la maggiore probabilità statistica di essere vera è "si sta lavando". Aki si lava in ogni momento della giornata: prima di mangiare e dopo mangiato, dopo ogni utilizzo della lettiera, tra un pisolino e l'altro, tra un gioco e l'altro. Si lava anche durante le lotte con suo fratello: basta un secondo di tregua e zac! Lui si dà una leccata alla zampina e la passa sul musetto. E se non basta, ogni tanto si mette a lavare anche Gandalf. E pure noi, se capitiamo a tiro. Sospetto che anche i suoi frequenti tentativi di avvicinare il Ciccio abbiano come obiettivo principale quello di dargli una bella lavata.

(PS: cinque minuti dopo aver scritto il precedente capoverso sono scesa al piano inferiore per preparare la cena e ho visto Aki. Indovinate cosa stava facendo? Ecco, appunto.)

Le mie gambe sono impresentabili
Sai che novità... Di certo l'unica cosa che hanno in comune con quelle di Gisele Bundchen o di Charlize Theron, tanto per citarne due che le possono esibire con orgoglio, è il fatto di chiamarsi gambe. Ma in questo non c'è nulla di nuovo, non l'ho certo imparato dai due pelosetti. Intendevo dire che adesso sono più impresentabili del solito.
No, non sono ingrassata. E il mio epilatore, dopo ventitré anni di onorato servizio, funziona ancora perfettamente.
Semplicemente, Gandalf utilizza le mie gambe come una palestra di arrampicata, soprattutto quando vuole essere preso in braccio per una dose di coccole, e questo capita piuttosto spesso. Aki invece ogni tanto le usa come tiragraffi.
Vi prego quindi di testimoniare, nel caso in cui si rendesse necessario, che gli arabeschi di graffi, tagli e buchi che ornano i miei arti inferiori non sono frutto di violenze domestiche né di autolesionismo.

La ciotola del vicino è sempre più interessante
Si tratta evidentemente di una legge universale, per cui ciò che hanno gli altri appare sempre più buono di quello che abbiamo noi. Anche se i due micetti ricevono uguali dosi degli stessi cibi in ciotole individuali, è un continuo rubarsele uno con l'altro, tirandole alternativamente con la zampetta in un esilarante tira e molla.
Per qualche imperscrutabile ragione, questo vale anche per le ciotole dell'acqua. Ce ne sono quattro sempre a disposizione, posizionate in diversi punti della casa e contengono tutte semplicissima acqua di rubinetto. Per quale motivo Gandalf deva rubare la ciotola ad Aki ogni volta che lo vede bere, rimane un mistero.

La nostra casa è piena di mostri
I gatti, si sa, vedono cose che per noi umani sono invisibili.
Aki, in particolare, trova nemici nascosti nei posti più impensabili e li aggredisce con la ferocia di una tigre. Cosa che peraltro fa ben sperare per un futuro da grande cacciatore.
È iniziato tutto con il mostro della ciotola dell'acqua.
Dopo aver provocato il ribaltamento di una delle ciotole dell'acqua con uno dei soliti tira-e-molla con Gandalf, Aki ha iniziato ad attaccarla selvaggiamente, con il pelo gonfio ed una serie impressionante di zompi, soffi e zampate. Solo che sul pavimento si era formato un sottile strato d'acqua e lui continuava a scivolarci sopra, con un effetto comicamente simile a quello di Bambi sul lago ghiacciato.

Successivamente Aki ha scoperto il mostro della lavatrice, che ha la tana nello spazio tra la lavatrice e il muro, lo stuzzicadente mannaro, che vive nella scatola delle cose che servono per accendere il fuoco nel caminetto e il mostro del divano nello studio. Si tratta di creature mitologiche, invisibili all'occhio umano ma che evidentemente non sfuggono all'implacabile predatore felino.

Il regalo di Natale più bello per un gattino è... l'albero di Natale!
Non ho mai fatto l'albero di Natale tante volte come quest'anno. E non ho mai avuto un albero di Natale così sbilenco, asimmetrico e spelacchiato.
Seguendo una tradizione che ha avuto un'unica eccezione nel 2007, quando ero sotto chemio e radio le difese immunitarie erano così compromesse da impedirmi di ricevere ospiti, l'otto dicembre, i miei nipoti sono venuti ad aiutarmi a decorare l'albero di Natale. Come sempre, da insopportabile perfettina, ho richiesto di prestare la massima attenzione alla disposizione armoniosa e simmetrica di tutte le decorazioni: palline grandi e piccole, lucide, opache e coperte di lustrini, pacchettini, campanelle, mele, catenelle... uno scintillio di rosso e oro illuminato da centinaia di lucine bianche. E poi i festoni verdi con le stelle di natale rosse e oro, avvolti sul corrimano della scala e tutt'intorno alla colonna del salotto.
Il Ciccio non ha mai mostrato un particolare interesse per le decorazioni natalizie, ma nel dubbio di come avrebbero reagito i due piccoli pelosi, ho preferito lasciare almeno temporaneamente nelle loro scatole tutte le decorazioni fragili, come gli orsetti di Harrods che avevo comperato a Londra.
Benedetta quella botta di saggezza!
Durante l'allestimento Gandalf aveva mostrato qualche interesse, mentre Aki si era limitato ad osservare a distanza.


Per le prime sei/otto ore dopo il completamento dell'opera mi ero quasi illusa che i minifelini si sarebbero limitati a qualche amichevole colpetto di zampa sulle decorazioni che pendevano dai rami più bassi, o anche a metà altezza, approfittando dello schienale della poltrona.


Invece la mattina del nove dicembre c'erano palline, pacchettini, catenelle e aghi finti di abete in giro per tutto il salotto.
Ho pazientemente raccolto tutto e ricomposto il capolavoro. Credo sia durato circa mezz'ora.
Nel frattempo, i due teppisti hanno rivolto le loro attenzioni ai festoni avvolti intorno alla colonna... che nel giro di cinque minuti non erano più avvolti ma tristemente penzolanti. Li ho dovuti risistemare in modo da ricoprire solo la parte più alta, fermandosi a circa un metro e venti da terra.
Il giorno dopo, Aki ha scoperto che sull'albero di Natale ci si può anche arrampicare...


L'albero di Natale è diventato il loro luna park, una fonte inesauribile di divertimento: ieri sono riusciti addirittura a rovesciarlo. Io continuo a raccogliere e risistemare le decorazioni, ma so già che è una battaglia persa. Almeno però gli orsetti di Harrods sono al sicuro nella loro scatola.

Contratti bestiali
Sabato, durante un pranzo di nozze, si parlava di animali domestici con i vicini di tavolo. Uno diceva di avere un contratto preciso con il proprio cane: l'umano provvede a cibo, riparo (rigorosamente fuori casa) e cure veterinarie; in cambio, il cane deve fare la guardia. Patti chiari, amicizia lunga.
È giusto: quando si sceglie di avere un animale bisogna sapere cosa ci si aspetta e definire le regole; lo abbiamo fatto anche noi, solo che le clausole del nostro contratto con i felini domestici sono diverse.
Ci siamo impegnati a considerarli parte della nostra famiglia.
Ci siamo impegnati ad accoglierli in casa, lasciandoli liberi di andare dove vogliono, consapevoli che ogni tanto combineranno qualche guaio e che avrò sempre la casa un po' meno pulita e meno in ordine di come vorrei.
Ci siamo impegnati a nutrirli con cibo adatto a loro, sapendo che non possono mangiare i nostri avanzi, perché loro non sono onnivori e hanno bisogno di mangiare carne ad ogni pasto.
Ci siamo impegnati a tutelare la loro salute, anche se ogni visita dal veterinario è un salasso.
Ci siamo impegnati a giocare con loro e a coccolarli, anche se questo significa ritrovarci con peli di gatto ovunque e pieni graffi lasciati dalle loro unghiette affilate come rasoi.
Ne riceviamo in cambio una quantità infinita di amore, coccole sorrisi e allegria.
E siamo felici, immensamente felici del nostro contratto.


lunedì 9 dicembre 2013

Il compagno luminoso e la sua stella

Sapevo che il compagno luminoso di Anna-Wide doveva essere per forza una persona speciale, lo sapevo anche prima di conoscerlo di persona; lo si capiva dalle parole di Anna, quando raccontava di come percorrevano insieme quel cammino così difficile che riuscivano, nonostante tutto, a riempire anche di felicità. Solo un uomo straordinario avrebbe potuto camminare al fianco di una donna così straordinaria.
Ne ho avuto abbondanti e ripetute conferme, soprattutto in queste ultime settimane. Dalle parole splendide e strazianti che ha pronunciato al funerale, in cui ha saputo mettere tutta la gioia di averla avuta vicina, senza nascondere nulla della fatica della malattia e del dolore della separazione. Dai visi di Sara e Lea, le cui espressioni raccontavano al di là di ogni parola il grande, meraviglioso e sicuramente difficilissimo lavoro che lui e Anna hanno compiuto perché la vita delle loro bambine fosse - e sia ancora - il più possibile serena.
Dal post di ieri, in cui ha voluto ricordare che dietro alle parole di Anna, sempre piene di saggezza, di ironia e di luce, in questi sei anni di convivenza con la malattia c'è stata anche tanta fatica, c'è stato anche tanto dolore. Perché forse qualcuno, leggendo il blog di Wide, potrebbe pensare che quelle parole spesso lievi raccontassero un cammino altrettanto lieve, ma non è così.
Dalla risposta che ha dato alla domanda su come ricordare Anna. Avrebbe potuto indicare qualche ente o associazione a cui destinare donazioni alla memoria, sarebbe stato sicuramente più facile, per lui e per noi: uno o due nomi, un bonifico e la coscienza è a posto.
Angelo invece ha voluto raccogliere l'eredità di Anna in modo vero e profondo e ha chiesto ad ognuno di noi un progetto, un impegno da portare avanti nel tempo, qualcosa attraverso cui prenderci cura di noi stessi e/o di altri.
Ci sto pensando, molto seriamente. Ci sono alcune cose che dovrei o vorrei fare per me stessa, per il mio benessere fisico e psicologico. Ci sono cose che potrei fare per gli altri e nelle quali esito ad impegnarmi. Forse questa è l'occasione giusta per raccogliere questi fili di idee, per vincere la pigrizia e iniziare a trasformarne almeno uno in qualcosa di vero.

Nel suo post, Angelo ci ha regalato anche la foto di Anna che era esposta vicino alla bara durante il funerale, questa foto.
L'avevo notata subito, appena entrata all'Aranciera di San Sisto, e mi aveva colpito perché mi era parsa insolita, priva di quella punta di ironia birichina che ho sempre associato allo sguardo di Anna. Ma poi ho pensato a quando parlava delle sue bimbe e di suo marito e allora mi sono detta sì, anche questa donna fatta di assoluta dolcezza è Anna, la mamma e moglie che ha amato immensamente la sua famiglia.

venerdì 29 novembre 2013

Facciamo i conti

Meno male che sono ingegnere, quindi un minimo di matematica dovrei conoscerla! Però chiunque può confermare che quando mi chiedono in cosa sono laureata, rispondo che sono ingegnere elettronico, ma non professo.
A marzo ho festeggiato i cinque anni liberi da malattia. Che magicamente, a ottobre, sono diventati sei e mezzo.
Da dove è spuntato quell'anno in più? Mistero!(*)
E mica me ne sono accorta subito, noooo! Mi ci è voluto quasi un mese per realizzare che 2013 meno 2008 fa cinque e non sei.
Ecco, intanto vado a correggere il post del 30 ottobre, da sei e mezzo a cinque e mezzo, perché con un errore del genere la sufficienza proprio non me la merito.

Ho fatto due conti anche con l'oncologo, oggi.
La visita era prevista due settimane fa, ma era stata rinviata perché il medico era assente, quindi tutti i pazienti di quel giorno sono stati ridistribuiti tra giovedì scorso e oggi e questo ha fatto aumentare a dismisura i tempi di attesa, già solitamente lunghi: sono entrata in ambulatorio più di tre ore dopo l'orario dell'appuntamento.
Ero ben attrezzata con e-reader e tablet perché conosco bene il mio oncologo, so che è sempre in ritardo con le visite, soprattutto quelle previste in tarda mattinata e non perché sia poco efficiente: semplicemente, lui dedica ad ogni paziente tutto il tempo necessario.
Visibilmente soddisfatto, ha preso visione dei risultati degli ultimi esami e ha sottolineato che mi trova veramente bene, nonostante ci sia sempre una punta di preoccupazione per la palla, che negli ultimi controlli sembra leggermente aumentata di volume. Non è soltanto lui, praticamente tutti i medici che mi hanno visitata in questi anni hanno storto un po' il naso di fronte a questo corpo estraneo che potrebbe diventare fonte di future complicanze. Radiologi, ginecologi, chirurghi, ortopedici... forse gli unici che non hanno detto nulla sono stati l'otorino e l'oculista, ma tutti gli altri mi hanno chiesto se non abbiamo tentato di eliminarla. Sì, abbiamo tentato. E no, non ha funzionato.

Mi ha fissato il prossimo controllo tra sei mesi. Pensavo che passati i cinque anni mi avrebbe concesso una libera uscita un po' più lunga, ma evidentemente preferisce essere prudente e tutto sommato mi va bene così, sono più tranquilla anch'io.
Gli ho chiesto conferma del fatto che il mio follow-up durerà dieci anni. Sembrava quasi in imbarazzo, forse pensava che dopo cinque anni io mi aspettassi di aver finito e fossi delusa, così mi sono affrettata a rassicurarlo. "Guardi, lo so che i sarcomi sono piuttosto insidiosi ed è meglio controllarli un po' più a lungo rispetto ad altre forme tumorali...". Ma avevo frainteso.
Il suo disagio nasceva dal dovermi comunicare che anche se va tutto bene, il mio follow-up durerà più di dieci anni.
Forse per via della recidiva o forse perché ho partecipato ad una sperimentazione clinica e vogliono monitorare la situazione più a lungo, fatto sta che hanno in programma di continuare a tenermi sotto controllo ancora per molto tempo. Prospettiva che tutto sommato mi pare accettabile, dato che implica che io viva ancora per "molto tempo".
La visita si è conclusa con una prova concreta dell'attenzione del medico verso di me. Nonostante in tutti i documenti clinici io sia identificata come Lazzarini Camilla, nella comunicazione per il mio medico di base l'oncologo ha scritto La sig.ra Lazzarini Mia. Perché lui ascolta. Ascolta sul serio, presta attenzione a ciò che gli viene detto. Magari può dimenticare i dati della cartella clinica, ma si ricorda di quello che gli racconto di me, del lavoro, dei miei hobby... E si ricorda del mio nome, quello vero.


(*) Ma che mistero d'Egitto! Lo so benissimo da dove arriva quell'anno in più: suo padre si chiama Ottimismo e sua madre Speranza.


giovedì 21 novembre 2013

Addio Wide



Addio dolce amica dagli occhi belli e dal cuore grande.
La tua vita è stata un sentiero troppo breve, ma così pieno di luce da illuminare il mondo.

Addio grande donna, che hai saputo trovare un senso ad ogni tuo giorno e riempirlo di vita.
Grazie per averci permesso di camminare al tuo fianco, per aver condiviso con noi tanta saggezza, tanti sorrisi, tanta speranza e tanto amore.

Addio Anna, rosa d'inverno.
Ogni parola che mi hai lasciato rimane nel mio cuore come un tesoro prezioso, ogni ricordo di te è un dono per il quale posso soltanto dirti


grazie




giovedì 14 novembre 2013

Gioco d'azzardo

Oggi sono passata dall'ambulatorio del medico di base a ritirare una ricetta che avevo richiesto per telefono. La segretaria me l'ha consegnata con un post-it attaccato sopra, su cui c'era scritto VACCINO: come ogni anno, la dottoressa mi ricorda che ho diritto alla vaccinazione antinfluenzale gratuita.
E, come ogni anno, io svicolo.
Non sono un'antivaccinista, assolutamente. Anzi, sono convinta che se non ci fossero tanti genitori contrari alle vaccinazioni pediatriche, alcune malattie infettive sarebbero scomparse dal nostro pianeta, o quantomeno molto prossime all'estinzione. Penso in particolare a difterite e poliomielite, che potrebbero essere definitivamente sconfitte, come è avvenuto anni fa per il vaiolo, se si riuscisse a completare un programma di vaccinazioni di massa a livello mondiale.
Sull'opportunità della vaccinazione antinfluenzale invece ho qualche dubbio.
La sua efficacia non è completa: copre il ceppo virale che si presume prevalente nella stagione, ma spesso i virus in circolazione sono più d'uno e in passato ho sentito diverse persone lamentarsi di aver contratto comunque un'influenza nonostante il vaccino. Inoltre, la copertura ha una durata limitata nel tempo: solo una stagione.
D'altra parte, anche se l'influenza non è di per sé una patologia grave, la mia condizione di immunodepressione ormai cronica (sigh!) potrebbe espormi ad un maggiore rischio di complicanze.
È anche vero però che sono passati più di vent'anni dalla mia ultima influenza e mi piace pensare di aver ereditato la mitica resistenza della nonna Ester e della Maria a questo tipo di patologie.
È per questo che negli ultimi anni ho sempre rinunciato al vaccino, ad eccezione di quando la Maria era malata, ma in quel caso l'avevo fatto per proteggere lei.
Gioco d'azzardo anche quest'anno?


PS: a chi eventualmente avesse la malsana idea di suggerirmi una terapia omeopatica preventiva, suggerisco di leggere questo.


lunedì 11 novembre 2013

Un vero signore

So che alcuni lettori del blog sono in trepida attesa di aggiornamenti felini, ma come già anticipato nel precedente post, in questi giorni ho qualche difficoltà pratica a scrivere al PC...

L'ambientamento dei nuovi arrivati è stato pressoché istantaneo e si sono adattati benissimo alla nuova casa...

...e ai relativi umani!

Poche ore dopo il loro arrivo avevano già imparato ad usare la lettiera, pur non avendola mai vista prima, e si sono rivelati subito molto puliti, affettuosi e vivaci.
Ognuno di loro ha subito iniziato a mostrare le proprie particolari caratteristiche, che ci hanno guidato nella scelta dei nomi.

Uno ha confermato la predilezione per la tecnologia elettronica e l'informatica...


... che già il primo giorno gli è valsa il suo nome: Hacker, subito abbreviato in Aki.
Oltre alle abilità informatiche (ha attivato funzioni del PC che mi erano totalmente sconosciute), Aki promette di essere un ottimo cacciatore: è agile e veloce e insegue con feroce determinazione qualsiasi cosa si muova.

Per l'altro la scelta è stata più difficile.
È coccolissimo, ci riempie continuamente di baci e fusa e ama dormire in posizioni improbabili, quindi inizialmente avevamo pensato di chiamarlo Morfeo.



(si noti che l'idillio con Renato prosegue nel migliore dei modi)
Però è anche un gran rompiscatole: curioso, invadente e prepotente: probabilmente era il più forte e intraprendente della cucciolata, infatti è un po' più grande di Aki, mangia più velocemente e quando la sua ciotola è vuota, ruba quella del fratello agganciandola con la zampetta.
Abbiamo formulato altre proposte, ma nessuno dei nomi che ci venivano in mente sembrava cogliere l'essenza di questo gatto, finché, ieri pomeriggio, mentre ragionavo sulla necessità di trovare un nome che andasse anche più avanti, quando probabilmente diventerà un imponente gattone grigio... grigio... grigio... Trovato il nome: si chiamerà Gandalf!

Eccoli dunque entrambi battezzati.

E il Ciccio?
Di certo non è contento dell'invasione delle due piccole pesti, ma non si abbassa a comportamenti plebei come menare le zampe. È superiore a queste meschinità, lui.
Fondamentalmente cerca di evitarli e passa la maggior parte della giornata fuori, nella sua cesta sotto il portico, entrando solo per mangiare.
Per limitare il suo disagio, lo riempiamo di coccole e gli riserviamo alcuni privilegi: la sua zona pranzo è separata, con ciotole riservate soltanto per lui, riempite sempre con i cibi più raffinati, e quando entra in cucina, allontaniamo i piccoli, in modo che possa mangiare in santa pace. Durante la notte il gattume viene chiuso nella lavanderia, per lasciare a completa disposizione del Ciccio il resto della casa, incluso il nostro letto.
Sembra più che altro scocciato dalla presenza di questi due intrusi e li guarda come farebbe un adulto con i figli maleducati di qualcun altro: sicuramente pensa che meriterebbero una bella ripassata, ma sa che non è opportuno provvedere personalmente, quindi si limita a fulminarli con lo sguardo.
Quando loro riescono ad avvicinarsi - e lo fanno ogni volta che gliene capita l'occasione - si lascia annusare senza reagire e subito si allontana.
Un vero signore.

sabato 2 novembre 2013

Cinquanta sfumature di grigio


Stamattina il nostro letto si è trasformato in un campo di battaglia, il teatro di una frenetica danza di coppia.

Due corpi che si univano e si separavano, stringendosi l'uno all'altro per poi allontanarsi e ritornare vicini.

Occhi che si incontravano, si studiavano, si sfidavano.

Contatti ad alta intensità, esplosioni di energia e momenti di assoluta dolcezza.

Un gioco che era divertimento, passione, amore.

E, alla fine, due corpi caldi, sfiniti dal confronto, che riposano vicini in un vortice di tenerezza e di colori.




Cinquanta sfumature di grigio.






Forse anche di più...








Non siamo riusciti a resistere: ecco i nuovi componenti della nostra famiglia in tutto il loro splendore!


Quando era morta Susi, nel  2006, avevamo subito pensato di prendere un altro gatto, ma la Maria aveva posto il veto, sostenendo che il Ciccio era già un impegno più che sufficiente.
In seguito è stato il timore della reazione del Ciccio a trattenerci: alla sua veneranda età, invalido e ormai abituato da anni a regnare incontrastato in casa, come si sarebbe comportato di fronte a un nuovo, piccolo ospite? Sarebbe stato felice di avere compagnia oppure geloso? Accogliente o aggressivo? Soddisfatto oppure offeso? Avrebbe considerato un nuovo gattino come un compagno oppure un intruso?
Per anni, a malincuore, abbiamo resistito a tutte le proposte di adozione.
E poi...

Verso metà agosto, nell'officina in cui lavora Renato è nata una cucciolata.
Mamma gatta, proveniente dalla casa vicina, aveva deciso di sistemare lì i suoi cinque piccoli per proteggerli dagli altri gatti, ma soprattutto dagli umani che già in altre occasioni le avevano sottratto i piccoli per sopprimerli (ma perché invece di comportarsi da barbari non sterilizzano le gatte?). Il suo istinto felino le aveva suggerito di fidarsi delle persone che lavorano lì, al punto che fin dai primi giorni ha lasciato che Renato e il suo titolare si avvicinassero ai gattini e addirittura li prendessero in braccio.
Dopo un paio di settimane, quando i micetti hanno iniziato ad uscire dalla scatola in cui erano stati sistemati, è stato necessario spostarli in un altro ricovero, altrimenti avrebbero rischiato di ferirsi le zampette con i trucioli di ferro che a volte si trovano sul pavimento dell'officina.
Per qualche giorno non si sono visti, poi mamma gatta è tornata, accompagnata da uno dei piccoli, uno splendido maschio dal folto mantello grigio con sfumature crema, che si è immediatamente piazzato sui piedi di Renato facendo le fusa.
Micia e micetto hanno continuato a visitare regolarmente l'officina, soltanto loro due, e ogni volta il piccolo andava a farsi coccolare da Renato.
Era nato un amore.


Vedendo come a Renato si illuminavano gli occhi ogni volta che parlava del micetto, gli ho proposto di fare una prova. Approfittando del weekend lungo, che avremmo trascorso a casa, potevamo portare qui il gattino e valutare la reazione del Ciccio: se fosse stato troppo aggressivo o geloso, il micetto sarebbe tornato dai suoi fratelli.
Dopo qualche tentennamento ha accettato e ieri mattina ci siamo armati di trasportino e siamo andati a recuperare il gattino.
Era in cortile, insieme a mamma gatta e ai fratellini... e io ho avuto un'ispirazione. E se ne avessimo presi due? Si sarebbero fatti compagnia a vicenda, senza disturbare troppo il Ciccio.
Detto, fatto.
Ce n'era uno bellissimo, grigio fumo, ma era una femmina e io preferisco i gatti maschi con i quali, non so per quale motivo, sono sempre riuscita a creare legami più forti rispetto alle femmine.
L'altro maschietto aveva ereditato il disegno mantello tabby blotched dal padre, ma i colori della madre: un trionfo di grigi. Preso!


Il breve viaggio in macchina fino a casa è andato liscio, sembra che nessuno dei due soffra il mal d'auto.
Appena arrivati, hanno iniziato ad esplorare il salotto e la cucina e hanno subito preso confidenza con la lettiera, anche se non l'avevano mai usata prima.
L'amore di Renato si è confermato... l'amore di Renato!

L'altro invece ha manifestato una predilezione per il mio PC. Una predilezione MOLTO forte: ci ho messo tutto il pomeriggio a scrivere questo post perché c'erano quattro zampette pelose che continuavano a premere tasti a caso!

Non hanno ancora un nome, perché vogliamo prima essere sicuri di poterli tenere con noi e questo - ovviamente - dipende dal Ciccio.

Appunto: come va con il Ciccio?
Il primo contatto è stato piuttosto teso, anche se meno peggio di quanto temevo: appena li ha visti ha iniziato a ringhiare e soffiare, ma senza tentare realmente di attaccarli, tanto che mi è bastato tenergli una mano sul petto per evitare che si avvicinasse troppo.
Fortunatamente, i micetti sono cresciuti insieme a diversi adulti, per cui non hanno mostrato aggressività verso di lui, quanto piuttosto una certa curiosità che ha portato ad un contatto violento quando uno dei due gli è andato incontro. Li abbiamo subito separati e non ci sono state conseguenze.
I successivi incontri sono stati sostanzialmente tranquilli: il Ciccio passa la maggior parte del suo tempo fuori oppure nel garage e quando entra li guarda con sospetto, ma non soffia più, prima di cena si è addirittura acciambellato a poca distanza; loro per lo più lo ignorano e se cercano di avvicinarlo, li tratteniamo.
Non è ancora il caso di lasciarli insieme senza sorveglianza, ma sono ottimista sulle possibilità di una futura convivenza civile.

mercoledì 30 ottobre 2013

5,5

Cinque e mezzo.
Gli anni liberi da malattia.
Ufficialmente, dato che oggi l'ecografia ha stabilito che nel mio addome non c'è niente di strano.
La palla non la contiamo perché ormai è di famiglia, anche se rompe, rompe parecchio. Per fare l'ecografia il medico ci è dovuto passare sopra e intorno e lei, che è parecchio permalosa, si è subito scaldata. Risultato: mi brucia tutta la parte destra, da metà pancia al ginocchio.

E chissenefrega.

giovedì 24 ottobre 2013

Il Custode

Non si può mai prevedere come gira il vento. Il giorno prima è tutto normale, loro girano per casa, vanno e vengono, ognuno secondo i propri orari. È vero, lei si lamenta già da qualche mese di bruciori di stomaco e nausea, cammina sempre più lentamente, fatica a muoversi, fa i gradini uno per volta, come se portasse un peso troppo grosso, ma tutti conducono più o meno la solita vita.
E poi una mattina, di colpo, lei fa la valigia, sparisce e tutto cambia. Io odio le valigie. Le valigie significano partenze e a me non piace che loro se ne vadano.
Lui e la madre sembrano agitati, escono di casa a ore insolite. Parlano poco, con parole dal suono minaccioso: ospedale, ricovero, TAC, intervento. Io e Susi osserviamo, inquieti, mentre passano le prime tiepide giornate di primavera. È chiaro che qualcosa non va.
Una mattina escono tutti molto presto, tesi e preoccupati. Tornano solo all'ora di cena, esausti e sconvolti. Le parole questa volta suonano terrificanti: liposarcoma, enorme, sette chili e mezzo, cancro.
Durante la notte suona il cellulare che lui tiene sul comodino. Si alza di colpo, così spaventato che quasi non riesce a tenere in mano il telefono. Ascolta per un po', poi risponde brusco: "Ha sbagliato numero". Dopo circa mezz'ora, il telefono suona di nuovo e lui risponde ancora; non è più preoccupato, ma arrabbiato: "Io non sono Gianni, ha sbagliato numero!". Alla terza telefonata è furioso: "Non sono Gianni, non sono amico di Gianni, non so nemmeno chi sia Gianni! La smetta di telefonarmi o chiamo i Carabinieri!". Finalmente il telefono tace.
Nei giorni seguenti è tutto un andirivieni di persone e squillare di telefoni; solo di giorno, però. Loro sono ancora preoccupati e restano spesso fuori casa per diverse ore, addirittura un paio di volte non rientrano per la notte, anche se non hanno la valigia. Parlano di vomito, tosse e dolori, di catetere peridurale, sondino naso-gastrico e nutrizione parenterale, ma anche di medici attenti e di infermieri gentili e premurosi. E poi, finalmente, risuonano parole più serene: cammina, mangia, dimissione. Iniziano di nuovo a sorridere, raccontando della babbiona, che hanno messo in camera con lei, che è andata in crisi isterica perché doveva affrontare un piccolo intervento per rimuovere i calcoli biliari, poi ha iniziato a lamentarsi del suo taglietto di tre centimetri proprio con lei, che ha un taglio che le attraversa tutta la pancia, tenuto insieme da trentanove punti. Come se non bastasse, la megera ha passato due interi giorni senza mai portare in bagno una saponetta per lavarsi. Bleah!
Finalmente lei torna, ma è cambiata. È molto più magra e ha la pelle così chiara che sembra trasparente. Fa ancora fatica a muoversi, ma in un modo diverso: ora sembra che ogni movimento le provochi dolore. Però, adesso che è a casa, siamo tutti più contenti.
I primi giorni rimane sul divano, sotto l'occhio vigile di Susi, che è vecchia, sorda e anche un po' antipatica perché non vuole mai giocare con me, però non è stupida e la conosce da tanto tempo, ha capito che c'è bisogno di lei. Alla sera invece, quando lei si mette a letto, è il mio turno di starle vicino.
Una mattina, mentre gli altri sono fuori, sento un lamento: lei si è fatta male. È successo qualcosa alla schiena, cammina a fatica, rigida e sofferente; piano piano sale le scale, gemendo, e va a stendersi sul letto: devo fare gli straordinari. Fa un paio di telefonate, poi rimane lì, con gli occhi chiusi in quel viso troppo pallido. Io non posso fare altro che restare a farle compagnia. Finalmente torna la madre e poco dopo arriva un'altra donna, una che non ho mai visto. La squadro con gli occhi socchiusi, vagamente minacciosi, tanto per chiarire che se ha intenzioni ostili, dovrà vedersela con me. Si ferma un po' lontano dal letto e mi guarda, preoccupata. Chiede se sono pericoloso e lei risponde di no. Be', dipende: io posso essere molto pericoloso, se voglio. Ma sembra che non sia necessario: la donna è un medico, è venuta per aiutare. Ancora parole strane: contrattura, analgesici, antinfiammatori. E poi una che conosco e che mi piace: riposo. Rimango a farle compagnia anche dopo che la donna se n'è andata e la madre è scesa a preparare il pranzo.
Lei mangia poco in questi giorni, e cose diverse dagli altri, cose con poco colore e poco profumo. La madre, che di solito prepara pasti abbondanti e saporiti, si rassegna malvolentieri a servire piatti di riso all'olio e patate, che alla fine del pasto rimangono mezzi pieni. I primi giorni niente frutta e verdura, altrimenti le fa male la pancia, ma lei dice che ha gli occhi stanchi, che ha bisogno di vitamine, e allora lui le porta succhi di mirtillo e di carota che lei beve tra mille smorfie, dicendo che sono troppo dolci.
Dopo un paio di giorni riesce di nuovo a scendere le scale e torna sul divano, con Susi che la tiene d'occhio, mentre io la sorveglio quando sta a letto. Comincia anche a stare in piedi un po' di più, si siede a tavola per mangiare e fa qualche passo in giardino. Passa molto tempo davanti al computer, seria e concentrata, come se cercasse qualcosa; sullo schermo passano parole sinistre: sarcoma, stadiazione, protocolli, sopravvivenza.
Ogni tanto si assenta per qualche ora, e torna stanca, parlando di medicazioni e di punti che non si chiudono. Un giorno rientra pallidissima e visibilmente provata, e racconta alla madre che vorrebbe tanto buttare un po' d'acqua ossigenata sulla carne viva di quella dottoressa che le ha detto che non brucia. Un'altra volta torna a casa con un foglio pieno di parole spaventose: liposarcoma, mixoide, aree pleomorfe, grado 3 FNC LCC. Si mette subito al computer, cercando. Man mano che legge, si irrigidisce. Non lo dice, ma so che nella sua mente si sta formando la parola più terribile: morte.
Nei giorni successivi, lei passa molto tempo al telefono, parlando di appuntamenti, visite e consulti. È impaziente, sembra un animale in gabbia (credetemi, so benissimo di cosa parlo), ma per tre settimane non succede niente; a tutti quelli che telefonano lei ripete: non so, sto aspettando, vedremo e si capisce benissimo che questa attesa la sta logorando più dei dolori. Di colpo ricomincia ad uscire e racconta di esami del sangue, TAC, radioterapista, oncologo, sorveglianza clinica, controlli trimestrali; ci sono anche parole straniere,  no-treatment e follow-up, che la madre non capisce e lei spiega così: "Hanno deciso di non fare niente. Aspettiamo e speriamo che non torni". Aspettano.
Tre mesi dopo sono di nuovo tutti tesi e preoccupati, mentre parlano di controllo, analisi, TAC, visita. Per fortuna dura poco, dopo una settimana si rilassano e tornano allegri. Questa alternanza di paura e gioia sarà solo la prima di tante.
Di nuovo dopo tre mesi: tensione, controlli, sollievo. Ma questa volta la gioia è offuscata dalla nuvola nera che è scesa per sempre sugli occhi di Susi. Non ci vede più. Me ne sono accorto perché un giorno mi è venuta addosso, lei che non ne aveva mai voluto sapere di avermi vicino. Ormai non esce quasi mai, solo un'oretta ogni tanto, quando il tempo è bello e la madre la accompagna in giardino. Rimane sotto il portico a godersi quel sole che non può più vedere, mentre io, senza farmi notare, mi assicuro che nessuno la disturbi. Una mattina la trovo in salotto, con lei e la madre, che le parlano dolcemente e piangono. E poi non la trovo più.
È passato un anno da quando lei aveva fatto la valigia ed è tornata la  primavera. Lei la assapora con tutti i sensi: non era affatto sicura di vederne un'altra.
Si capisce facilmente quando si avvicina il periodo dei controlli, perché Lei diventa ogni giorno più tesa e irritabile, mentre lui e la madre sopportano, comprensivi, ma si vede che anche loro sono spaventati. Questa volta parlano di mezzo di contrasto, allergia, premedicazione. Alla fine però si rilassano di nuovo, è iniziano a fare progetti: brevetto sub, agosto, vacanze, montagna. Per loro è tutto a posto, per me invece no: significa che faranno di nuovo le valigie.
Al ritorno dalle vacanze sono di nuovo preoccupati per un dolore all'ascella. Lei fa qualche telefonata, chiede di anticipare i controlli, ma le rispondono che non si può. Allora decide: ecografia, a pagamento. Torna tutta sorridente: falso allarme, dice. E di nuovo parlano di vacanze: ottobre, Mar Rosso, immersioni, prenotato.
A settembre c'è il solito giro di controlli, ma lei è tranquilla perché si sente benissimo: fa ginnastica quasi tutti i giorni, va in piscina, è piena di energie e di progetti. Sono andati insieme, lui e lei, a ritirare il referto della TAC. Quando lei torna a casa, alla sera, è calmissima. Troppo. Si siede davanti alla madre e parla: nuova massa, recidiva. Anche la madre è calma: "Vediamo cosa si può fare. E facciamolo." Lui è distrutto, ma vedendole così determinate, si sforza di essere coraggioso, per lei.
Lei torna dalla prima visita arrabbiata: "Avevo telefonato per avvertire, ma la dottoressa non sapeva niente!", racconta alla madre. Passano due settimane di ansia prima della telefonata dall'ospedale in cui le parlano di piano terapeutico e protocollo sperimentale. Nel frattempo, lei cerca di finire tutti i lavori che ha in sospeso e annulla la vacanza sul Mar Rosso.
Alla visita successiva vanno tutti insieme, lei, lui e la madre, perché lei vuole che tutti sappiano cosa li aspetta nei prossimi mesi. Tornano contenti perché lei è stata affidata allo stesso radioterapista con cui aveva parlato un anno e mezzo fa e che le aveva fatto una buona impressione.
La settimana seguente, vanno di nuovo in ospedale insieme. Quando tornano, nel pomeriggio, lei è rigida e indolenzita e si mette a letto. Vado subito a controllarla e scopro che ha un tubicino che le esce dal petto, poco sotto la clavicola destra. Lo chiama CVC, catetere venoso centrale. Due giorni dopo, lui la accompagna di nuovo in ospedale e al ritorno attaccato al tubo c'è un serbatoio trasparente da cui lei non si separa mai, nemmeno quando dorme: chemioterapia in infusione continua, dicono.
All'inizio non le dà fastidio, il giorno dopo esce a cena con lui, ma alla terza notte capisco che c'è bisogno di me e mi piazzo sul suo letto. Dorme male, si alza prestissimo e si precipita in bagno a vomitare. Continua così per tutte le due settimane successive; per un po' è tranquilla a letto o davanti al computer nel suo studio oppure sul divano, poi di colpo si precipita in bagno, dove passa parecchio tempo ed esce con l'aria stravolta. È sempre stanca, rimane molto a letto, ma a me non dispiace e resto volentieri a farle compagnia.
Ogni tanto al mattino esce: quando torna presto, parla di emocromo, quando invece rimane fuori più a lungo, racconta alla madre di sostituzione della pompa e poi di fine primo ciclo. Due giorni dopo quest'ultima uscita capisco che non ha più bisogno di assistenza notturna, almeno per ora: dorme sempre tanto, ma non va più in bagno a vomitare e ricomincia anche ad uscire; un paio di volte rimane fuori tutta la giornata, parlando di lavoro.
Organizza addirittura una festa, per il compleanno di lui, ma ha qualcosa di strano, un berretto in testa, di quelli che di solito usa d'estate per proteggersi dal sole quando lavora in giardino. Solo che adesso non è estate, è sera e la festa è dentro casa, non in giardino. Il giorno dopo la vedo ancora più strana: non ha più nemmeno un pelo in testa, solo la pelle liscia e lucida. Rimane così per tutto l'inverno ed è chiaro che c'è qualcosa che non va, perché il pelo bisognerebbe perderlo d'estate, non adesso che inizia a fare freddo. E poi lei non l'aveva mai perso prima; non tutto, almeno. Se capitasse a me, non avrei il coraggio di farmi vedere in giro, andrei a rintanarmi nell'angolo più buio e lontano da tutti, invece a lei sembra che non importi, anzi ci ride sopra dicendo che così non perde tempo a pettinarsi; solo qualche volta tiene un berretto in testa, perché dice che ha freddo. Però vedo che gli altri la guardano in modo strano per quella testa pelata.
Dopo due settimane tranquille, un giorno lei torna di nuovo a casa con il serbatoio, parlando di secondo ciclo. I primi due giorni la tengo d'occhio con discrezione, ma non sembra aver bisogno di me. Dal terzo giorno in poi riprendo la sorveglianza ravvicinata, perché inizia di nuovo a stare male, tanto. Passa ancora molto tempo in bagno, anche se vomita meno della prima volta, però è solo perché non riesce quasi più a mangiare. Dormiamo tantissimo, insieme, un po' sul divano e sempre più spesso a letto, perché lei ha tanta nausea che non riesce nemmeno a parlare, ha bisogno di tranquillità e silenzio. Io le faccio sempre compagnia, ma non la disturbo mai e so che la mia presenza la conforta.
Qualche giorno dopo l'applicazione del serbatoio lei inizia ad uscire tutte le mattine. La vengono a prendere amici e parenti, ogni giorno una persona diversa. Racconta alla madre che la radioterapia non dà fastidio, però io la vedo indebolirsi ogni giorno di più. È sempre più stanca e pallida, ha occhiaie profonde, si muove a fatica. Qualche volta deve chiedere aiuto, perché non ce la fa nemmeno a stare in piedi, e allora piange di rabbia. Ha sempre freddo, tanto freddo. La madre accende il caminetto e lei si rifugia sotto una pila di coperte, ma trema e allora lui la abbraccia per riscaldarla.
Un giorno parla con il suo amico medico, il nostro vicino di casa; un tipo simpatico, anche se ha un grosso cane che vorrebbe uccidermi. Lei gli parla di disidratazione, spiega che non riesce più a bere, che ha bisogno di liquidi. Lui fa una telefonata parlando di Pronto Soccorso. Lei esce e rimane fuori fino a sera; quando torna sta un po' meglio, ma la mattina dopo sta di nuovo male e la tengono in ospedale per tutta la giornata.
Finalmente le tolgono il serbatoio e dopo due giorni inizia a stare meglio, ricomincia a mangiare un po', ma è sempre tanto stanca. Al mattino esce per la radioterapia e quando torna, si mette subito a letto, a dormire. Quando parla di emocromo, si rabbuia. Leucopenia, dice un giorno, rientrando con una mascherina chirurgica sul viso: non ha quasi più difese immunitarie. Non si avvicina a me e quella sera, per la prima volta, trovo la porta della sua camera chiusa. Busso e la chiamo, ma non mi apre. La madre mi raggiunge davanti alla porta e mi spiega che lei oggi non può starmi vicino, per non rischiare di ammalarsi. Che discorso assurdo: è già ammalata e io la sto aiutando! Piango. Niente da fare. La madre mi propone di dormire con lei, tentando di distrarmi, ma non funziona. Piango ancora. Per fortuna lei non è stupida: il giorno dopo ci guardiamo dritto negli occhi e ci capiamo al volo; mi dice "Al diavolo, non mi porterai certo più batteri e virus di mia madre quando torna dal supermercato!". E mi fa segno di raggiungerla.
La madre le fa un'iniezione, la chiama fattori di crescita. La madre una volta faceva l'infermiera, è brava a fare le iniezioni, le ha fatte anche a me qualche volta, e so che non fanno male. Qualche ora dopo però, lei si alza per andare in bagno e inizia un gemito di dolore che aumenta di volume fino a trasformarsi quasi in un ululato. Non dura molto, forse un paio di minuti, ma a me che la sto aspettando in camera, fa drizzare i peli e spacca il cuore.
Si avvicina Natale, ma lei non ha ancora decorato l'albero. Aspetta di invitare i suoi nipoti, che vengono ogni anno ad aiutarla, ma questa volta non si può: niente visite, hanno detto i medici. Alla fine, lei ingoia le lacrime e prepara l'albero di Natale da sola. Niente festeggiamenti in compagnia, quest'anno: solo noi, a casa, come piace a me.
Con l'inizio del nuovo anno, le cose migliorano: lei rimane quasi sempre a casa, esce solo un paio di volte alla settimana, per qualche controllo. Non deve più mettere la mascherina, ma dice che i globuli bianchi sono ancora troppo pochi, che bisognerà rinviare l'intervento.
Inizia sempre più spesso a soffrire di uno strano disturbo: di colpo, diventa tutta rossa e inizia a sudare abbondantemente, al punto che spesso di notte si deve alzare per lavarsi e cambiare maglietta. Parla di menopausa e vampate e ci scherza su, dicendo che è una fortuna avere la testa pelata, così sente meno caldo. Un giorno, di ritorno da una visita in ospedale, parla con lui di livelli ormonali e sterilità. Fa la faccia coraggiosa, ma io lo so che è tanto triste.
Dopo più di un mese di tranquillità, un giorno, improvvisamente, inizia a parlare di pre-ricovero, day hospital e degenza; è frenetica: riordina il suo studio in modo maniacale e - soprattutto - prepara la valigia. Se ne va un'altra volta.
Lui è di nuovo teso e preoccupato, e anche la madre, che però lo nasconde meglio. Ancora una volta escono al mattino presto e tornano alla sera. Parlano di intervento riuscito e terapia intensiva. Lui dorme inquieto e ogni tanto nel letto allunga una mano, come per cercarla. Al mattino, prestissimo, lo squillo del cellulare che ha tenuto acceso sul comodino lo fa sobbalzare. Spaventatissimo, prende il telefono. Gli sfugge di mano. Cade. Lo raccoglie e lo porta all'orecchio. Ascolta. "Sì, va bene, grazie". Sospira di sollievo e avverte la madre: "Sta bene, la terapia intensiva non serve più, la riportano in camera".
Finalmente, dopo una settimana, lei ritorna. Un po' pallida e sofferente, ma non come la prima volta. Si è subito sistemata sul divano e io ho ripreso il mio posto al suo fianco. E guai a chi prova a disturbarla!
Ha dolori forti, a volte di notte rimane sveglia per ore, in silenzio, aspettando che passino. Quando proprio non ce la fa più, prende una pastiglia. Ogni tre o quattro giorni torna all'ospedale e una volta rientra con la faccia cupa, parlando di referto istologico e infiltrazioni maligne. Sembra un deja-vu, la replica di quello che è successo due anni fa.
La ripresa è lenta: lei rimane quasi sempre sul divano, fa fatica a stare in piedi e a camminare, le fa molto male l'inguine. Ancora visite ed esami e una parola nuova: linfocele, una bolla di liquido nella pancia; lei lo chiama "la palla".
Con il passare del tempo, un po' alla volta, i dolori si riducono, e lei ricomincia a stare seduta e a camminare. Un giorno torna a casa tutta contenta perché non ha più il tubicino sul petto: ora è tutto molto più normale.
Ricomincia la giostra dei controlli trimestrali: tensione, paura e poi sollievo: una volta, due, tre. Poi l'intervallo si allunga un po', a quattro mesi, poi cinque e infine sei.
Il tempo passa, i mesi diventano anni: due, tre, quattro cinque. Lei e lui sono ancora qui, la madre invece un giorno ha fatto la valigia e non è più tornata. L'ho sempre detto, io, che le valigie sono pericolose. Infatti adesso ogni volta che ne vedo una mi spavento e cerco di infilarmici dentro, per essere sicuro che lei non se ne vada senza di me. Perché non si sa mai.
Io sono il Custode.
È compito mio vegliare su di lei, anche se sono vecchio e zoppico. Sarò sempre pronto al suo fianco, quando avrà bisogno di me, fino a che avrò orecchie per sentirla, occhi per vederla, zampe per raggiungerla, pelo per riscaldarla e baffi per farle il solletico. Fino a che avrò cuore per amarla, le mie fusa saranno la sua ninna nanna.



(racconto classificato al terzo posto ex-aequo alla seconda edizione del concorso letterario Scriviamoci con Cura organizzato dal CRO di Aviano)

domenica 20 ottobre 2013

Madre Natura


In questi giorni mi sono trovata coinvolta in diverse discussioni che da punti di partenza totalmente diversi hanno finito per toccare un argomento comune, peraltro particolarmente gettonato su Internet in questo periodo: la Natura.
Sui social network e nei blog è tutto un fiorire di sollecitazioni a riavvicinarsi a Madre Natura, ad uscire dal vortice della nostra società ipercompetitiva e a recuperare l'armonia con l'ambiente, a liberarsi dagli artifici della civiltà moderna per ritrovare valori più autentici. Ragionamenti assolutamente condivisibili, in linea di principio.
È evidente che il benessere della specie umana dipende dall'ecosistema della Terra e che è necessario rispettarlo per assicurarci la sopravvivenza a lungo termine. Allo stesso modo, è senz'altro auspicabile l'adozione di stili di vita più sobri, sia dal punto di vista materiale, con minore consumo di risorse, sia dal punto di vista morale, coltivando la cultura della solidarietà.
Ma non esageriamo.

Perché la Natura non è esattamente la madre amorevole celebrata in Rete da schiere di sostenitori del naturale ad ogni costo, secondo i quali basta lasciar fare alla Natura e tutto andrà bene, perché tutto quello che è naturale è buono mentre tutto ciò che è frutto della tecnologia è dannoso.
Senza entrare nel merito delle numerose teorie più o meno strampalate in cui mi è capitato di imbattermi, ne cito ad esempio soltanto una, che avevo già letto qualche anno fa ma in questi giorni sembra tornata in auge, secondo cui il nostro corpo è perfettamente in grado di guarire da solo da qualunque malattia, incluso il cancro, purché la forza risanatrice della Natura non venga intralciata da farmaci o altre pratiche terapeutiche "artificiali".

È sicuramente vero che il nostro organismo ha grandi capacità di autodifesa ed autoguarigione, come pure che dagli elementi naturali si possono ricavare innumerevoli sostanze curative.
È altrettanto certo che, se avessimo lasciato fare solo a Madre Natura, io ora non sarei qui a scrivere sul blog.
Sarei morta.
Non di cancro, no. Non avrei fatto a tempo ad ammalarmi di cancro, perché non sarei nemmeno arrivata a 35 anni, l'età in cui si sono manifestati i primi sintomi della malattia.
Sarei morta molto prima, probabilmente addirittura alla nascita, che in natura non sarebbe certo avvenuta con parto cesareo, soluzione a suo tempo scelta da mia madre perché non ero nella posizione giusta e lei - che era ostetrica - sapeva bene quanto pericolose fossero le manovre necessarie per far uscire per via naturale un bambino che si trovasse in quella situazione.
Se comunque fossi sopravvissuta al parto, senza le vaccinazioni e gli antibiotici avrei avuto sì e no il 30% di probabilità di superare l'infanzia. Anche senza pensare a patologie gravi come il vaiolo o la difterite, sarebbe bastata una delle numerose tonsilliti che ho avuto prima dei dieci anni ad uccidermi.
E se anche fossi riuscita a resistere alle infezioni, di sicuro la frattura multipla e scomposta alla gamba subita quando avevo cinque anni mi avrebbe lasciato per sempre incapace di camminare normalmente.

Per quanto riguarda la possibilità di guarire spontaneamente dal cancro, io ci ho provato - giuro - ma non ha funzionato. La prima volta ho tentato molto a lungo, involontariamente, dato che la diagnosi è arrivata con molto ritardo dopo l'insorgenza dei primi sintomi. In quei mesi, il mio corpo e la Natura hanno avuto tutto il tempo di attivare i loro poteri di guarigione, ma decisamente non hanno funzionato e probabilmente non sarei sopravvissuta per più di qualche settimana senza l'operazione chirurgica che ha rimosso quell'enorme massa dal mio addome.
Anche dopo il primo intervento ho provato a lasciar fare alla Natura, in questo caso in modo consapevole e d'accordo con gli oncologi che hanno proposto il no-treatment, l'astensione da ogni terapia nella speranza che il mio organismo riuscisse ad eliminare da solo eventuali cellule tumorali residue. La Natura ha fatto il suo corso... e mi è tornato il cancro.

Ai sostenitori ad oltranza delle terapie naturali gioverebbe ricordare che nelle popolazioni che non hanno accesso a farmaci di sintesi, chirurgia ed altre pratiche mediche artificiali, l'aspettativa di vita è inferiore a 45 anni. Per avere un termine di paragone, da noi, in Italia, l'aspettativa di vita è di circa 82 anni. Questo non significa che la medicina sia infallibile e ci sono anche altri fattori che contribuiscono a determinare l'aspettativa di vita (alimentazione, condizioni ambientali, guerre, ecc.), ma sicuramente l'accesso alle cure mediche offre molte possibilità di sopravvivenza in più.

Agli ammiratori del mito del buon selvaggio, quelli convinti che il progresso abbia corrotto la nostra etica rendendoci sempre più egoisti e meno inclini alla solidarietà ed amplificando le differenze sociali, vorrei invece segnalare che in Natura esistono moltissime specie totalmente individualiste, mentre quelle organizzate in gruppi sociali seguono regole gerarchiche estremamente rigide, in cui gli individui al vertice godono di notevoli privilegi rispetto a quelli di livello inferiore. Per garantire la sopravvivenza del branco, inoltre, gli individui deboli, anziani o malati vengono lasciati indietro a morire.

È davvero è il caso di lasciar fare a Madre Natura?