giovedì 24 ottobre 2013

Il Custode

Non si può mai prevedere come gira il vento. Il giorno prima è tutto normale, loro girano per casa, vanno e vengono, ognuno secondo i propri orari. È vero, lei si lamenta già da qualche mese di bruciori di stomaco e nausea, cammina sempre più lentamente, fatica a muoversi, fa i gradini uno per volta, come se portasse un peso troppo grosso, ma tutti conducono più o meno la solita vita.
E poi una mattina, di colpo, lei fa la valigia, sparisce e tutto cambia. Io odio le valigie. Le valigie significano partenze e a me non piace che loro se ne vadano.
Lui e la madre sembrano agitati, escono di casa a ore insolite. Parlano poco, con parole dal suono minaccioso: ospedale, ricovero, TAC, intervento. Io e Susi osserviamo, inquieti, mentre passano le prime tiepide giornate di primavera. È chiaro che qualcosa non va.
Una mattina escono tutti molto presto, tesi e preoccupati. Tornano solo all'ora di cena, esausti e sconvolti. Le parole questa volta suonano terrificanti: liposarcoma, enorme, sette chili e mezzo, cancro.
Durante la notte suona il cellulare che lui tiene sul comodino. Si alza di colpo, così spaventato che quasi non riesce a tenere in mano il telefono. Ascolta per un po', poi risponde brusco: "Ha sbagliato numero". Dopo circa mezz'ora, il telefono suona di nuovo e lui risponde ancora; non è più preoccupato, ma arrabbiato: "Io non sono Gianni, ha sbagliato numero!". Alla terza telefonata è furioso: "Non sono Gianni, non sono amico di Gianni, non so nemmeno chi sia Gianni! La smetta di telefonarmi o chiamo i Carabinieri!". Finalmente il telefono tace.
Nei giorni seguenti è tutto un andirivieni di persone e squillare di telefoni; solo di giorno, però. Loro sono ancora preoccupati e restano spesso fuori casa per diverse ore, addirittura un paio di volte non rientrano per la notte, anche se non hanno la valigia. Parlano di vomito, tosse e dolori, di catetere peridurale, sondino naso-gastrico e nutrizione parenterale, ma anche di medici attenti e di infermieri gentili e premurosi. E poi, finalmente, risuonano parole più serene: cammina, mangia, dimissione. Iniziano di nuovo a sorridere, raccontando della babbiona, che hanno messo in camera con lei, che è andata in crisi isterica perché doveva affrontare un piccolo intervento per rimuovere i calcoli biliari, poi ha iniziato a lamentarsi del suo taglietto di tre centimetri proprio con lei, che ha un taglio che le attraversa tutta la pancia, tenuto insieme da trentanove punti. Come se non bastasse, la megera ha passato due interi giorni senza mai portare in bagno una saponetta per lavarsi. Bleah!
Finalmente lei torna, ma è cambiata. È molto più magra e ha la pelle così chiara che sembra trasparente. Fa ancora fatica a muoversi, ma in un modo diverso: ora sembra che ogni movimento le provochi dolore. Però, adesso che è a casa, siamo tutti più contenti.
I primi giorni rimane sul divano, sotto l'occhio vigile di Susi, che è vecchia, sorda e anche un po' antipatica perché non vuole mai giocare con me, però non è stupida e la conosce da tanto tempo, ha capito che c'è bisogno di lei. Alla sera invece, quando lei si mette a letto, è il mio turno di starle vicino.
Una mattina, mentre gli altri sono fuori, sento un lamento: lei si è fatta male. È successo qualcosa alla schiena, cammina a fatica, rigida e sofferente; piano piano sale le scale, gemendo, e va a stendersi sul letto: devo fare gli straordinari. Fa un paio di telefonate, poi rimane lì, con gli occhi chiusi in quel viso troppo pallido. Io non posso fare altro che restare a farle compagnia. Finalmente torna la madre e poco dopo arriva un'altra donna, una che non ho mai visto. La squadro con gli occhi socchiusi, vagamente minacciosi, tanto per chiarire che se ha intenzioni ostili, dovrà vedersela con me. Si ferma un po' lontano dal letto e mi guarda, preoccupata. Chiede se sono pericoloso e lei risponde di no. Be', dipende: io posso essere molto pericoloso, se voglio. Ma sembra che non sia necessario: la donna è un medico, è venuta per aiutare. Ancora parole strane: contrattura, analgesici, antinfiammatori. E poi una che conosco e che mi piace: riposo. Rimango a farle compagnia anche dopo che la donna se n'è andata e la madre è scesa a preparare il pranzo.
Lei mangia poco in questi giorni, e cose diverse dagli altri, cose con poco colore e poco profumo. La madre, che di solito prepara pasti abbondanti e saporiti, si rassegna malvolentieri a servire piatti di riso all'olio e patate, che alla fine del pasto rimangono mezzi pieni. I primi giorni niente frutta e verdura, altrimenti le fa male la pancia, ma lei dice che ha gli occhi stanchi, che ha bisogno di vitamine, e allora lui le porta succhi di mirtillo e di carota che lei beve tra mille smorfie, dicendo che sono troppo dolci.
Dopo un paio di giorni riesce di nuovo a scendere le scale e torna sul divano, con Susi che la tiene d'occhio, mentre io la sorveglio quando sta a letto. Comincia anche a stare in piedi un po' di più, si siede a tavola per mangiare e fa qualche passo in giardino. Passa molto tempo davanti al computer, seria e concentrata, come se cercasse qualcosa; sullo schermo passano parole sinistre: sarcoma, stadiazione, protocolli, sopravvivenza.
Ogni tanto si assenta per qualche ora, e torna stanca, parlando di medicazioni e di punti che non si chiudono. Un giorno rientra pallidissima e visibilmente provata, e racconta alla madre che vorrebbe tanto buttare un po' d'acqua ossigenata sulla carne viva di quella dottoressa che le ha detto che non brucia. Un'altra volta torna a casa con un foglio pieno di parole spaventose: liposarcoma, mixoide, aree pleomorfe, grado 3 FNC LCC. Si mette subito al computer, cercando. Man mano che legge, si irrigidisce. Non lo dice, ma so che nella sua mente si sta formando la parola più terribile: morte.
Nei giorni successivi, lei passa molto tempo al telefono, parlando di appuntamenti, visite e consulti. È impaziente, sembra un animale in gabbia (credetemi, so benissimo di cosa parlo), ma per tre settimane non succede niente; a tutti quelli che telefonano lei ripete: non so, sto aspettando, vedremo e si capisce benissimo che questa attesa la sta logorando più dei dolori. Di colpo ricomincia ad uscire e racconta di esami del sangue, TAC, radioterapista, oncologo, sorveglianza clinica, controlli trimestrali; ci sono anche parole straniere,  no-treatment e follow-up, che la madre non capisce e lei spiega così: "Hanno deciso di non fare niente. Aspettiamo e speriamo che non torni". Aspettano.
Tre mesi dopo sono di nuovo tutti tesi e preoccupati, mentre parlano di controllo, analisi, TAC, visita. Per fortuna dura poco, dopo una settimana si rilassano e tornano allegri. Questa alternanza di paura e gioia sarà solo la prima di tante.
Di nuovo dopo tre mesi: tensione, controlli, sollievo. Ma questa volta la gioia è offuscata dalla nuvola nera che è scesa per sempre sugli occhi di Susi. Non ci vede più. Me ne sono accorto perché un giorno mi è venuta addosso, lei che non ne aveva mai voluto sapere di avermi vicino. Ormai non esce quasi mai, solo un'oretta ogni tanto, quando il tempo è bello e la madre la accompagna in giardino. Rimane sotto il portico a godersi quel sole che non può più vedere, mentre io, senza farmi notare, mi assicuro che nessuno la disturbi. Una mattina la trovo in salotto, con lei e la madre, che le parlano dolcemente e piangono. E poi non la trovo più.
È passato un anno da quando lei aveva fatto la valigia ed è tornata la  primavera. Lei la assapora con tutti i sensi: non era affatto sicura di vederne un'altra.
Si capisce facilmente quando si avvicina il periodo dei controlli, perché Lei diventa ogni giorno più tesa e irritabile, mentre lui e la madre sopportano, comprensivi, ma si vede che anche loro sono spaventati. Questa volta parlano di mezzo di contrasto, allergia, premedicazione. Alla fine però si rilassano di nuovo, è iniziano a fare progetti: brevetto sub, agosto, vacanze, montagna. Per loro è tutto a posto, per me invece no: significa che faranno di nuovo le valigie.
Al ritorno dalle vacanze sono di nuovo preoccupati per un dolore all'ascella. Lei fa qualche telefonata, chiede di anticipare i controlli, ma le rispondono che non si può. Allora decide: ecografia, a pagamento. Torna tutta sorridente: falso allarme, dice. E di nuovo parlano di vacanze: ottobre, Mar Rosso, immersioni, prenotato.
A settembre c'è il solito giro di controlli, ma lei è tranquilla perché si sente benissimo: fa ginnastica quasi tutti i giorni, va in piscina, è piena di energie e di progetti. Sono andati insieme, lui e lei, a ritirare il referto della TAC. Quando lei torna a casa, alla sera, è calmissima. Troppo. Si siede davanti alla madre e parla: nuova massa, recidiva. Anche la madre è calma: "Vediamo cosa si può fare. E facciamolo." Lui è distrutto, ma vedendole così determinate, si sforza di essere coraggioso, per lei.
Lei torna dalla prima visita arrabbiata: "Avevo telefonato per avvertire, ma la dottoressa non sapeva niente!", racconta alla madre. Passano due settimane di ansia prima della telefonata dall'ospedale in cui le parlano di piano terapeutico e protocollo sperimentale. Nel frattempo, lei cerca di finire tutti i lavori che ha in sospeso e annulla la vacanza sul Mar Rosso.
Alla visita successiva vanno tutti insieme, lei, lui e la madre, perché lei vuole che tutti sappiano cosa li aspetta nei prossimi mesi. Tornano contenti perché lei è stata affidata allo stesso radioterapista con cui aveva parlato un anno e mezzo fa e che le aveva fatto una buona impressione.
La settimana seguente, vanno di nuovo in ospedale insieme. Quando tornano, nel pomeriggio, lei è rigida e indolenzita e si mette a letto. Vado subito a controllarla e scopro che ha un tubicino che le esce dal petto, poco sotto la clavicola destra. Lo chiama CVC, catetere venoso centrale. Due giorni dopo, lui la accompagna di nuovo in ospedale e al ritorno attaccato al tubo c'è un serbatoio trasparente da cui lei non si separa mai, nemmeno quando dorme: chemioterapia in infusione continua, dicono.
All'inizio non le dà fastidio, il giorno dopo esce a cena con lui, ma alla terza notte capisco che c'è bisogno di me e mi piazzo sul suo letto. Dorme male, si alza prestissimo e si precipita in bagno a vomitare. Continua così per tutte le due settimane successive; per un po' è tranquilla a letto o davanti al computer nel suo studio oppure sul divano, poi di colpo si precipita in bagno, dove passa parecchio tempo ed esce con l'aria stravolta. È sempre stanca, rimane molto a letto, ma a me non dispiace e resto volentieri a farle compagnia.
Ogni tanto al mattino esce: quando torna presto, parla di emocromo, quando invece rimane fuori più a lungo, racconta alla madre di sostituzione della pompa e poi di fine primo ciclo. Due giorni dopo quest'ultima uscita capisco che non ha più bisogno di assistenza notturna, almeno per ora: dorme sempre tanto, ma non va più in bagno a vomitare e ricomincia anche ad uscire; un paio di volte rimane fuori tutta la giornata, parlando di lavoro.
Organizza addirittura una festa, per il compleanno di lui, ma ha qualcosa di strano, un berretto in testa, di quelli che di solito usa d'estate per proteggersi dal sole quando lavora in giardino. Solo che adesso non è estate, è sera e la festa è dentro casa, non in giardino. Il giorno dopo la vedo ancora più strana: non ha più nemmeno un pelo in testa, solo la pelle liscia e lucida. Rimane così per tutto l'inverno ed è chiaro che c'è qualcosa che non va, perché il pelo bisognerebbe perderlo d'estate, non adesso che inizia a fare freddo. E poi lei non l'aveva mai perso prima; non tutto, almeno. Se capitasse a me, non avrei il coraggio di farmi vedere in giro, andrei a rintanarmi nell'angolo più buio e lontano da tutti, invece a lei sembra che non importi, anzi ci ride sopra dicendo che così non perde tempo a pettinarsi; solo qualche volta tiene un berretto in testa, perché dice che ha freddo. Però vedo che gli altri la guardano in modo strano per quella testa pelata.
Dopo due settimane tranquille, un giorno lei torna di nuovo a casa con il serbatoio, parlando di secondo ciclo. I primi due giorni la tengo d'occhio con discrezione, ma non sembra aver bisogno di me. Dal terzo giorno in poi riprendo la sorveglianza ravvicinata, perché inizia di nuovo a stare male, tanto. Passa ancora molto tempo in bagno, anche se vomita meno della prima volta, però è solo perché non riesce quasi più a mangiare. Dormiamo tantissimo, insieme, un po' sul divano e sempre più spesso a letto, perché lei ha tanta nausea che non riesce nemmeno a parlare, ha bisogno di tranquillità e silenzio. Io le faccio sempre compagnia, ma non la disturbo mai e so che la mia presenza la conforta.
Qualche giorno dopo l'applicazione del serbatoio lei inizia ad uscire tutte le mattine. La vengono a prendere amici e parenti, ogni giorno una persona diversa. Racconta alla madre che la radioterapia non dà fastidio, però io la vedo indebolirsi ogni giorno di più. È sempre più stanca e pallida, ha occhiaie profonde, si muove a fatica. Qualche volta deve chiedere aiuto, perché non ce la fa nemmeno a stare in piedi, e allora piange di rabbia. Ha sempre freddo, tanto freddo. La madre accende il caminetto e lei si rifugia sotto una pila di coperte, ma trema e allora lui la abbraccia per riscaldarla.
Un giorno parla con il suo amico medico, il nostro vicino di casa; un tipo simpatico, anche se ha un grosso cane che vorrebbe uccidermi. Lei gli parla di disidratazione, spiega che non riesce più a bere, che ha bisogno di liquidi. Lui fa una telefonata parlando di Pronto Soccorso. Lei esce e rimane fuori fino a sera; quando torna sta un po' meglio, ma la mattina dopo sta di nuovo male e la tengono in ospedale per tutta la giornata.
Finalmente le tolgono il serbatoio e dopo due giorni inizia a stare meglio, ricomincia a mangiare un po', ma è sempre tanto stanca. Al mattino esce per la radioterapia e quando torna, si mette subito a letto, a dormire. Quando parla di emocromo, si rabbuia. Leucopenia, dice un giorno, rientrando con una mascherina chirurgica sul viso: non ha quasi più difese immunitarie. Non si avvicina a me e quella sera, per la prima volta, trovo la porta della sua camera chiusa. Busso e la chiamo, ma non mi apre. La madre mi raggiunge davanti alla porta e mi spiega che lei oggi non può starmi vicino, per non rischiare di ammalarsi. Che discorso assurdo: è già ammalata e io la sto aiutando! Piango. Niente da fare. La madre mi propone di dormire con lei, tentando di distrarmi, ma non funziona. Piango ancora. Per fortuna lei non è stupida: il giorno dopo ci guardiamo dritto negli occhi e ci capiamo al volo; mi dice "Al diavolo, non mi porterai certo più batteri e virus di mia madre quando torna dal supermercato!". E mi fa segno di raggiungerla.
La madre le fa un'iniezione, la chiama fattori di crescita. La madre una volta faceva l'infermiera, è brava a fare le iniezioni, le ha fatte anche a me qualche volta, e so che non fanno male. Qualche ora dopo però, lei si alza per andare in bagno e inizia un gemito di dolore che aumenta di volume fino a trasformarsi quasi in un ululato. Non dura molto, forse un paio di minuti, ma a me che la sto aspettando in camera, fa drizzare i peli e spacca il cuore.
Si avvicina Natale, ma lei non ha ancora decorato l'albero. Aspetta di invitare i suoi nipoti, che vengono ogni anno ad aiutarla, ma questa volta non si può: niente visite, hanno detto i medici. Alla fine, lei ingoia le lacrime e prepara l'albero di Natale da sola. Niente festeggiamenti in compagnia, quest'anno: solo noi, a casa, come piace a me.
Con l'inizio del nuovo anno, le cose migliorano: lei rimane quasi sempre a casa, esce solo un paio di volte alla settimana, per qualche controllo. Non deve più mettere la mascherina, ma dice che i globuli bianchi sono ancora troppo pochi, che bisognerà rinviare l'intervento.
Inizia sempre più spesso a soffrire di uno strano disturbo: di colpo, diventa tutta rossa e inizia a sudare abbondantemente, al punto che spesso di notte si deve alzare per lavarsi e cambiare maglietta. Parla di menopausa e vampate e ci scherza su, dicendo che è una fortuna avere la testa pelata, così sente meno caldo. Un giorno, di ritorno da una visita in ospedale, parla con lui di livelli ormonali e sterilità. Fa la faccia coraggiosa, ma io lo so che è tanto triste.
Dopo più di un mese di tranquillità, un giorno, improvvisamente, inizia a parlare di pre-ricovero, day hospital e degenza; è frenetica: riordina il suo studio in modo maniacale e - soprattutto - prepara la valigia. Se ne va un'altra volta.
Lui è di nuovo teso e preoccupato, e anche la madre, che però lo nasconde meglio. Ancora una volta escono al mattino presto e tornano alla sera. Parlano di intervento riuscito e terapia intensiva. Lui dorme inquieto e ogni tanto nel letto allunga una mano, come per cercarla. Al mattino, prestissimo, lo squillo del cellulare che ha tenuto acceso sul comodino lo fa sobbalzare. Spaventatissimo, prende il telefono. Gli sfugge di mano. Cade. Lo raccoglie e lo porta all'orecchio. Ascolta. "Sì, va bene, grazie". Sospira di sollievo e avverte la madre: "Sta bene, la terapia intensiva non serve più, la riportano in camera".
Finalmente, dopo una settimana, lei ritorna. Un po' pallida e sofferente, ma non come la prima volta. Si è subito sistemata sul divano e io ho ripreso il mio posto al suo fianco. E guai a chi prova a disturbarla!
Ha dolori forti, a volte di notte rimane sveglia per ore, in silenzio, aspettando che passino. Quando proprio non ce la fa più, prende una pastiglia. Ogni tre o quattro giorni torna all'ospedale e una volta rientra con la faccia cupa, parlando di referto istologico e infiltrazioni maligne. Sembra un deja-vu, la replica di quello che è successo due anni fa.
La ripresa è lenta: lei rimane quasi sempre sul divano, fa fatica a stare in piedi e a camminare, le fa molto male l'inguine. Ancora visite ed esami e una parola nuova: linfocele, una bolla di liquido nella pancia; lei lo chiama "la palla".
Con il passare del tempo, un po' alla volta, i dolori si riducono, e lei ricomincia a stare seduta e a camminare. Un giorno torna a casa tutta contenta perché non ha più il tubicino sul petto: ora è tutto molto più normale.
Ricomincia la giostra dei controlli trimestrali: tensione, paura e poi sollievo: una volta, due, tre. Poi l'intervallo si allunga un po', a quattro mesi, poi cinque e infine sei.
Il tempo passa, i mesi diventano anni: due, tre, quattro cinque. Lei e lui sono ancora qui, la madre invece un giorno ha fatto la valigia e non è più tornata. L'ho sempre detto, io, che le valigie sono pericolose. Infatti adesso ogni volta che ne vedo una mi spavento e cerco di infilarmici dentro, per essere sicuro che lei non se ne vada senza di me. Perché non si sa mai.
Io sono il Custode.
È compito mio vegliare su di lei, anche se sono vecchio e zoppico. Sarò sempre pronto al suo fianco, quando avrà bisogno di me, fino a che avrò orecchie per sentirla, occhi per vederla, zampe per raggiungerla, pelo per riscaldarla e baffi per farle il solletico. Fino a che avrò cuore per amarla, le mie fusa saranno la sua ninna nanna.



(racconto classificato al terzo posto ex-aequo alla seconda edizione del concorso letterario Scriviamoci con Cura organizzato dal CRO di Aviano)

36 commenti:

  1. Splendido Ciccio e splendida Mia. Un abbraccio caldo e stretto ad entrambi :-)

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  2. Mi è scesa una lacrimuccia, tenerissimo e meraviglioso Ciccio!
    Un abbraccio
    Natalina

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  3. che commozione...grazie Mia....grande Ciccio.
    rita

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  4. Bellissimo...
    Commovente e bellissimo...
    Roberta

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  5. Ho le lacrime agli occhi...sarà che è un periodo in cui sono un po' instabile...grazie Mia

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    1. A volte capita di imbattersi in qualcosa che fa risuonare in modo particolare i nostri pensieri: possono essere parole, musica, luoghi, profumi... La cosa giusta al momento giusto: una piccola magia.

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  6. Ciccio <3 Mi sono commossa!

    Carolina

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  7. Bellissimo! Coinvolgente, tenero e molto commovente.

    Lina

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  8. Bello...e poi dicono che i gatti non si affezionano! D'altra parte, chi non si innamorerebbe di te, specie quando racconti tutto così bene e con così tanta intensità? Un bacio a te e un grattino a Ciccio!

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    1. Oh, mi vengono in mente parecchie persone che non si innamorerebbero di me... Io, per esempio! ;o)

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  9. Originale ed apprezzabile dal punto di vista letterario. Ma non è certo ciò che conta maggiormente. Ciò che conta è l'amore che ti lega a Ciccio riflesso nell'amore di Ciccio verso di te. Una lacrimuccia è pure scesa...
    Luisa

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  10. mi sono commosso come un deficente

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  11. A metà racconto ho pensato al Ciccio e ti assicuro che è stata una rivelazione meravigliosa, hai sofferto tantissimo. La Madre e Lui sono stati un supporto grandissimo, ma quel Ciccio che racconta è notevole. Grazie Mia.
    4p

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    1. Il Ciccio ha fatto la sua parte, insieme a tutti quelli (tanti!) che mi sono stati accanto in quel periodo.

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  12. Perché sto piangendo? Finisce bene questa storia e allora perché io piango con i singhiozzi dei bambini?
    Ti seguo da un po', non ti conosco eppure sento un sincero affetto per te. Che cosa strana e meravigliosa questo internet.

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    1. Per fortuna, le lacrime non sono sempre espressione di dolore.
      E Internet è davvero qualcosa di speciale: mi ha permesso di conoscere - almeno virtualmente - persone straordinarie come voi.

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