Si trovava esattamente
dove non avrebbe mai voluto essere.
Seduta sulla sedia di
plastica blu, si guardava intorno smarrita, ripetendosi che quello non era il
suo posto, che lei non doveva essere lì. Era un incubo.
Un brutto sogno, sì:
così si spiegava tutto. Sicuramente tra poco si sarebbe svegliata, magari con
la voce del piccolo che la chiamava dall'altra stanza perché aveva sete. Oppure
l'avrebbe svegliata suo marito che si agitava nel letto al suo fianco. Ecco,
sì, era quello. Nel sogno c'era proprio suo marito che si agitava sulla sedia vicino
alla sua: evidentemente il suo subconscio stava rielaborando la realtà.
Un pizzicotto. Ci
voleva un pizzicotto per svegliarsi. O forse serviva solo per dimostrare che si
stava sognando? Non importava: un pizzicotto avrebbe risolto tutto. Si sarebbe
data un pizzicotto e l'incubo sarebbe finito. O no?
Sentiva gli occhi
bruciare, la gola che si chiudeva. Si può piangere, nei sogni? Mentre muoveva
la mano per cercare quella del marito si graffiò contro la cerniera della
borsa. Bastò quel piccolo dolore per abbattere quel poco che restava delle sue
difese.
Non voleva piangere,
non lì, davanti a tutte quelle persone sconosciute, ma le lacrime scorrevano
senza che riuscisse a fermarle. Nascose il viso contro la spalla del marito,
mentre cercava un fazzoletto nella borsa.
Perché stava
succedendo? Perché proprio a lei? Dove aveva sbagliato?
Tutti le ripetevano
quasi ossessivamente che non era colpa sua, che non aveva niente da
rimproverarsi. L'aveva detto anche la dottoressa, quella gentile: «Lei non ha
familiarità e nessuno dei fattori di rischio noti: non fuma, non beve alcolici,
non è sovrappeso, si alimenta in modo corretto, non vive in un ambiente
inquinato, ha avuto due figli e li ha allattati…»
«E allora perché è
successo? Perché?» Aveva quasi urlato.
La dottoressa aveva
risposto con sincerità: «Non lo so. Non conosciamo ancora tutti i meccanismi di
queste malattie, non sempre siamo in grado di capirne le cause». Era stata
sincera anche dopo: «Non posso promettere che guarirà, ma ci sono buone
probabilità».
Buone probabilità,
certo. Lei non ci credeva più, alle probabilità. Secondo la statistica non si
sarebbe mai dovuta ammalare, eppure ora era lì, su quella dannata sedia blu, a
piangere. Non sapeva di avere tante lacrime.
Si era sforzata di
ricomporsi e con il viso mezzo nascosto dietro al fazzoletto aveva dato
un'occhiata intorno. La sala d'attesa era affollata, c'erano soprattutto donne.
Qualcuna aveva la testa avvolta in un foulard; probabilmente le altre avevano
una parrucca, ma era difficile capirlo, sembravano molto naturali. Alcune
avevano il viso gonfio; l'altra dottoressa, quella dai modi bruschi, le aveva
spiegato che era la "faccia da luna piena" dovuta al cortisone. Due
avevano un colorito verdastro e occhiaie profonde. Sembravano tutte molto più
vecchie di lei.
Aveva deciso di non
voler avere niente a che fare con loro, di non voler essere come loro. Lei era
lì solo per uno scherzo crudele del destino; era diversa, era giovane, aveva due
bambini piccoli, un lavoro importante… Si era accorta che stava di nuovo
piangendo e che una donna con il foulard giallo la guardava con aria di
compatimento. No! Non voleva la sua pietà, non voleva la pietà di nessuno. Aveva
risposto a quello sguardo con aria di sfida e l'altra aveva distolto gli occhi.
Uno a zero per lei.
Si sentiva a disagio, ora
le pareva che tutti la guardassero ed era stato quasi un sollievo sentire il
suo numero all'altoparlante: trentasette. Tre più dei suoi anni. Aveva passato
ancora una volta il fazzoletto sugli occhi, congratulandosi con se stessa per
aver scelto un mascara waterproof, e aveva lasciato finalmente l'odiosa sedia
blu per raggiungere… Di colpo si era resa conto che non sapeva dove andare.
Certo non negli ambulatori dove aveva avuto i colloqui con i medici,
sicuramente le stanze per le terapie erano da qualche altra parte, ma dove? Aveva
guardato il marito con gli occhi sbarrati mentre il panico le scavava nello
stomaco. Lui aveva frainteso la sua espressione e fatto per abbracciarla. «Stai
tranquilla, andrà tutto bene!» Lei si era divincolata sibilando. «Non è quello!».
Si era accorta di averlo ferito e si era sentita meschina. «Scusa», aveva detto
sottovoce. «È solo che non so dove devo andare».
All'improvviso si era
ritrovata a fianco la donna con il foulard giallo. «Prima chemio?» aveva
chiesto con un sorriso. E subito, senza lasciarle nemmeno il tempo di
rispondere: «Venga, la accompagno io».
Troppo sorpresa per
reagire, si era accodata obbediente, mentre il marito raccoglieva la cartella
con la documentazione medica e le seguiva. La donna con il foulard si era
voltata a guardarli: «Gli accompagnatori non possono stare nelle stanze delle
terapie: può portare le carte, ma poi dovrà tornare ad aspettarla qui».
Un colpo al cuore. «Come?
Non può stare con me?». Di nuovo aveva sentito pungere le lacrime, mentre un
groppo le serrava la gola.
«No, cara, le stanze
non sono abbastanza grandi…». La donna con il foulard sembrava sinceramente
dispiaciuta. «Ma vedrà che troverà compagnia».
Compagnia? In che
senso? Lei non pensava certo di andarsene in giro con la flebo come aveva visto
fare ad alcuni pazienti: aveva intenzione di chiudersi nella sua stanza, fare
tutto ciò che doveva e poi andarsene appena possibile.
Quando avevano
raggiunto le stanze per le terapie, aveva compreso quello che aveva voluto dire
la donna con il foulard: invece di stanze singole con letti c'erano tre stanzoni,
ognuno con due file di poltroncine reclinabili, quasi tutte occupate da
pazienti con le flebo. Si era sentita morire.
«È arrivata la Franca!»,
«Buongiorno, Franca!», «Ciao Franca!». Infermiere e pazienti salutavano con
calore la donna con il foulard giallo. «E chi abbiamo qui? Una nuova?». La
guardavano tutti, avrebbe voluto scomparire. «Numero trentasette», aveva detto
sottovoce a una delle infermiere.
L'infermiera le aveva
sorriso: «Aspetti un attimo che controllo l'elenco».
Era rimasta ferma,
imbarazzata, in mezzo alle chiacchiere che con l'arrivo di Franca avevano
animato la stanza. Era completamente disorientata: tutto era così diverso da
come se l'era immaginato… Ed era arrabbiata con se stessa per la debolezza che
stava mostrando. Lei era uno stimato avvocato e si stava comportando come una
bambina al primo giorno di asilo. Ci mancava solo che iniziasse a chiamare la
mamma.
L'infermiera stava
tornando con un foglio in mano. Franca le si era avvicinata con un sorriso: «La
lascio nelle mani di Michela, che si prenderà buona cura di lei. Vedrà che si
troverà bene».
Bene? Come poteva
trovarsi bene in un day hospital oncologico? Si sta bene in casa a giocare con
i propri figli, si sta bene in un hotel a cinque stelle, non in un ospedale in
mezzo a gente che sta per morire. Non quando, forse, stai per morire anche tu.
Si era ritrovata sulla
poltroncina senza rendersi conto di come ci fosse arrivata, mentre l'infermiera
le chiedeva di scoprire il port per infilare l'ago.
«È sotto la camicia», aveva
balbettato.
«Sì, dovrebbe aprire i
primi bottoni».
Intendeva dire che
doveva spogliarsi davanti a tutta quella gente? Lei che non aveva allattato
nemmeno davanti ai suoi familiari si sarebbe dovuta sbottonare la camicetta di
fronte a un gruppo di sconosciuti? Di colpo la paura era stata sostituita dalla
rabbia. Ma questi non avevano mai sentito parlare di privacy? Ah, ma lei era un
avvocato, conosceva i suoi diritti, non si sarebbe fatta trattare in questo
modo!
L'infermiera aspettava
con l'ago in mano e un'espressione perplessa sul viso. «Signora, le hanno
spiegato come funziona il port, vero? È tanto più comodo anche per noi, che non
dobbiamo stare a cercare le vene. Sa, con la chemio si danneggiano, qualche
volta si fa fatica e dispiace creare altro disagio a voi, che già ne avete
tanto… Con il port è tutto più facile».
Facile, come no. Facile
per lei! Ma che ne sapeva quell'infermiera del suo disagio, della vergogna,
della paura? Che ne sapeva di cosa si prova quando ti dicono che hai il cancro?
No, per favore, non di nuovo quelle maledette lacrime, non adesso!
«Mi scusi, io…» aveva
iniziato. Ma non riusciva a proseguire.
L'infermiera aveva
annuito, comprensiva. «Lo so, signora, non è facile. Ma noi siamo qui per
aiutarla. Ha freddo? Vuole che le porti un lenzuolo?».
«Un lenzuolo, sì,
grazie». Come si chiamava l'infermiera? Ah, Michela. «Grazie, Michela».
Senza saperlo, Michela
aveva trovato la soluzione al suo imbarazzo. O forse lo sapeva, perché quando era
tornata con il lenzuolo, l'aveva sistemato con abilità, in modo da nascondere
completamente l'operazione di inserimento dell'ago.
Aveva chiuso gli occhi
quando le prime gocce avevano iniziato a scendere dalla flebo. Non voleva
vedere. Non voleva sentire le chiacchiere degli altri pazienti. Non voleva
mescolarsi a loro. Non voleva essere lì. Non voleva. Punto.
Finita la prima flebo,
Michela si era avvicinata per inserire l'altra, che era avvolta nella carta
stagnola. Lei non aveva chiesto niente, non voleva sapere cosa fosse. Aveva
chiuso di nuovo gli occhi.
Li aveva riaperti con
la sensazione di essere osservata. Vicino alla sua poltroncina c'era Franca,
con quell'assurdo foulard giallo, la flebo appesa a un'asta su rotelle e un
sorriso appeso alla faccia. «Tutto bene?» le aveva chiesto. «Ha bisogno di
qualcosa? Se vuole le possiamo portare un tè e i biscotti, oppure le fette
biscottate. Sono offerti dall'associazione dei volontari. Anch'io sono una
volontaria». Il sorriso si era allargato. «Ero, cioè. Prima di ammalarmi.
Adesso sarei una paziente, ma cosa vuole, è difficile perdere l'abitudine… Non
voglio disturbarla», aveva aggiunto, forse rendendosi conto della sua
espressione ostile. «Se non le serve niente, vado via subito e la lascio
tranquilla». Aveva iniziato a spostare l'asta della flebo, ma poi, quasi ripensandoci,
era tornata a guardarla, più seria. «È difficile, lo so. Lo so davvero, adesso
che ci sono in mezzo. Lo dicevo anche prima, ma non era vero, non lo sapevo.
Non lo sai davvero finché non ti succede. Non sai tante cose: la paura, la
fatica, l'imbarazzo di chiedere aiuto quando non ce la fai. Ma l'aiuto qualche
volta serve e bisogna accettarlo, glielo dico con il cuore. È una strada troppo
dura da percorrere da soli».
Si era ripromessa di
non parlare con nessuno, lì dentro, ma non era riuscita a trattenersi dal
rispondere: «È la mia battaglia, di nessun altro».
«La sua battaglia,
capisco. È un modo di vederla, lo usano in tanti. Io preferisco pensare che sia
un cammino, una strada. Perché non mi piace l'idea della guerra. Guerra contro
chi, poi? Alla fine questa malattia è comunque roba mia. Non è come un virus
che viene dall'esterno, quello puoi anche considerarlo un nemico, ma queste
sono le mie cellule. Impazzite, certo, ma mie. Non riesco a odiarle. Bisogna
volersi bene, soprattutto adesso». Aveva sorriso di nuovo. «Le dico un'ultima
cosa poi la lascio in pace, promesso. In qualunque modo la voglia guardare, una
battaglia, una strada o qualsiasi altra cosa, non può essere soltanto sua.
Perché lei non è sola nella vita. C'è suo marito, ci sono i genitori, la
famiglia, gli amici… Lei ha figli, sì? Tante persone che le vogliono bene. Non
cerchi di proteggerle tenendole lontane: le farebbe soffrire ancora di più. Mi
creda, sarà più facile sia per lei che per loro se accetta di condividere
questo percorso, di avere qualcuno che combatte - o cammina - al suo fianco. E,
se vuole, ci siamo anche noi». Aveva fatto un gesto con la mano a indicare le
altre poltroncine della stanza. Quattro donne stavano guardando verso di lei e
le avevano sorriso. «Fine del pistolotto. Mi tolgo dai piedi e chiedo scusa se
ho disturbato, ma mi dispiaceva troppo vederla così. Se vuole il tè o i
biscotti, basta chiedere».
Era rimasta basita, a
guardare l'asta della flebo di Franca che si allontanava. Ma chi era quella? E
come si permetteva di venire a darle lezioni? Lei era lì per combattere, non
per fare una passeggiata! E non aveva intenzione di coinvolgere nessuno in
questa guerra. Era perfettamente in grado di gestire la situazione. A modo suo.
Se voleva stare sola, erano fatti suoi. Anche se voleva piangere. Maledizione,
perché stava di nuovo piangendo?
Però, che grinta quella
Franca! Faceva tanto la pacifista, ma si era avvicinata a una sconosciuta per
farle tutti quei discorsi senza un briciolo di imbarazzo. Lei, che si sentiva
tanto guerriera, non ne avrebbe mai avuto il coraggio. Chissà se anche Franca aveva
pianto tanto, la prima volta.
Aveva abbassato lo
schienale della poltroncina con il comando elettrico, girato la testa verso il
muro e tirato su il lenzuolo. Non voleva che la vedessero. Non voleva vedere.
Non voleva pensare. Gli occhi le bruciavano ancora; li aveva chiusi, e poco
dopo si era assopita.
Si era riscossa quando
Michela era venuta di nuovo a cambiare la flebo. Aveva la gola secca e uno
sgradevole sapore metallico in bocca. L'infermiera le aveva chiesto come si
sentisse. Voleva rispondere che stava bene, ma le era uscito solo un suono gracchiante.
Si era umettata le labbra e aveva riprovato. «Potrei avere qualcosa da bere?».
«Ma certo!», aveva
risposto Michela. Sembrava quasi sollevata di avere finalmente ottenuto una
reazione. «Vuole un bicchiere d'acqua o le faccio portare un tè? Io le consiglio
il tè, aiuta a togliere il sapore cattivo dalla bocca. Magari con un paio di
biscotti. Qui ne avrà ancora per un'oretta, le farebbe bene mangiare qualcosa».
Il tè caldo e i
biscotti le sembravano un miraggio, ma aveva paura che glieli portasse Franca,
non voleva dargliela vinta. Stava per rispondere a Michela che preferiva un
bicchiere d'acqua, ma si era trattenuta, dandosi della sciocca: perché
rinunciare solo per dispetto a qualcosa che le faceva piacere?
«Il tè con i biscotti
sarebbe perfetto, grazie». Bisognava volersi bene.
Aveva sollevato lo
schienale della poltroncina e si era guardata intorno. Alcune pazienti avevano
finito la loro terapia e se n'erano andate e ne erano arrivate di nuove. Il suo
sguardo si era inchiodato su una poltroncina della fila opposta. C'era una
ragazza più giovane di lei, quasi una bambina. Aveva un paio di occhioni
azzurrissimi che illuminavano un viso da bambola privo di sopracciglia, una
bandana colorata in testa. Chiacchierava animatamente con un'altra paziente, gesticolando
con foga mentre spiegava, ridendo, qualcosa che riguardava l'acquisto di una
borsa.
Il suo cuore aveva
perso un battito. Cosa ci faceva lì una ragazzina? Non era giusto! E perché
rideva? Cosa c'è da ridere nell'avere il cancro a vent'anni?
Una volontaria era
arrivata con il tè caldo e i biscotti, su un vassoio da letto. Per fortuna non
era Franca e non si era trattenuta a lungo, solo il tempo di chiederle se le
serviva altro («No, grazie») e dirle di lasciare la tazza vuota sul vassoio,
che sarebbe passata lei più tardi a ritirarla. Meno male.
Mentre sgranocchiava un
biscotto, aspettando che il tè si raffreddasse un poco, lo sguardo era tornato sulla
ragazza, che le aveva fatto un cenno di saluto con la mano, senza smettere di
chiacchierare e di sorridere. Suo malgrado, si era trovata a ricambiare il
sorriso.
Le era sembrato che il
tempo non passasse mai, ma finalmente Michela era venuta a togliere anche
quella terza flebo. Aveva un'altra bottiglietta in mano.
«Ancora?» Le aveva
chiesto angosciata. «Pensavo fossero solo tre…»
«Questa è soltanto
soluzione fisiologica per il lavaggio. Tranquilla: dura pochissimo, presto
potrà andare a casa».
Era vero: meno di un
quarto d'ora dopo era di nuovo in sala d'attesa, dove il marito la aspettava
ansioso.
«Com'è andata?»
«Tutto bene. Andiamo a
casa».
Per i primi chilometri
del tragitto in auto la conversazione era stata praticamente inesistente. Suo
marito aveva tentato di attaccare discorso un paio di volte, ma aveva finito
per arrendersi di fronte ad un muro di silenzio. Improvvisamente, lei si era
come risvegliata.
«Accosta».
«Stai male?»
«No, voglio solo
scendere un attimo. Guarda, là c'è spazio: accosta, per favore».
Lui aveva fermato
l'auto ed era sceso, premuroso, ad aprirle la portiera. Lei era scesa e l'aveva
guardato dritto negli occhi, con le lacrime che tremolavano tra le palpebre.
«Volevo solo
abbracciarti. E dirti che ti amo. E che ho paura. E che non voglio combattere, voglio
vivere. E che ho bisogno di te per affrontare questa cosa, questo… viaggio».
Lui l'aveva avvolta nel
più caldo degli abbracci e le aveva sussurrato all'orecchio: «Ti amo anch'io. E
ho paura. E ho bisogno di te. E voglio che tu viva. E voglio camminare al tuo
fianco per ogni passo. E, se serve, ti porterò in braccio. Arriverai alla
guarigione, ci arriveremo insieme».
Erano rimasti così per
qualche minuto, ad ascoltare ognuno il battito del cuore dell'altro, a riempirsi
l'anima di tutto il coraggio che riuscivano a trovare. Poi lei aveva detto: «Torniamo
a casa. Dobbiamo spiegare ai bambini che la mamma diventerà pelata come un
uovo. E voglio chiamare mia madre, per chiederle di aiutarmi».
Era cominciato così, il
suo viaggio nel mondo del cancro. Perché anche se prima c'erano stati esami e
visite, quello era stato il primo giorno in cui si era davvero resa conto di essere
una paziente oncologica.
Aveva scoperto che la
metafora del viaggio le piaceva più di quella della battaglia. Per andare in
ospedale si preparava lo zainetto, come quando partiva per le gite in montagna,
facendosi aiutare dai bambini: la bottiglia dell'acqua, una sciarpa di cotone
per proteggere le cervicali dall'aria condizionata, un libro, il tablet con gli
auricolari per la musica. I viaggi per lei erano sempre stati fonte di gioia:
chissà che anche da questo non si potesse tirare fuori qualcosa di buono. Sarebbe
stato duro, certo, ma era determinata ad arrivare in fondo. E magari a godersi
il panorama, nel frattempo.
Si era instaurata una
routine fatta di analisi, visite e terapie. Di nausea, vomito e stanchezza. Di
valori del sangue alterati, che ogni volta, fino all'ultimo, mettevano in
dubbio la possibilità di effettuare le infusioni. Di capelli che cadevano a
ciocche, fino a quando si era decisa a rasarli a zero e sostituirli con la
parrucca. Più o meno quello che si aspettava.
Quello che non aveva
previsto erano stati gli incontri, le relazioni che erano nate sulle
poltroncine delle sale di terapia e sulle sedie blu della sala d'attesa.
C'era Franca, naturalmente,
che aveva più o meno l'età di sua madre e la trattava proprio come una figlia.
Ma c'era anche Roberta, la ragazza di vent'anni che si curava per un linfoma e
che era diventata la mascotte del reparto. E Lorena, Evelina, Antonietta, Daria,
Elena… Compagne di sventura, anzi, compagne di viaggio con cui aveva imparato a
condividere paure, dolore, ma anche sorrisi.
Avevano festeggiato
quando Franca era diventata nonna per la terza volta. E quando Roberta aveva
passato a pieni voti l'esame di diritto costituzionale. Avevano pianto insieme
quando Evelina le aveva salutate per ricoverarsi all'hospice. E poi al suo
funerale. Avevano fatto il tifo per i globuli bianchi di Lorena che non
volevano saperne di alzarsi. Si erano divertite al corso di trucco. Avevano
preso in giro Antonietta che aveva paura degli aghi e si voltava dall'altra
parte ogni volta che le attaccavano la flebo. Si erano incoraggiate e consolate
a vicenda.
Un giorno Franca le
aveva fatto i complimenti. «Sei stata brava ad accorgerti di quel nodulo, a
fare i controlli anche se sei così giovane. Se io mi fossi ammalata quando
avevo la tua età, me ne sarei accorta troppo tardi. Quella volta la mammografia
non esisteva e se mi avessero parlato di autopalpazione avrei risposto che io
ero una ragazza seria, certe cose non le facevo». Avevano riso tutte. «E poi,
chi ci pensa al cancro quando ha trent'anni, o addirittura venti?», aveva
continuato indicando Roberta. «Io sono stata fortunata, me l'hanno beccato con
lo screening. Ma a voi giovani i controlli non li passano, dovete arrangiarvi.
E tante non lo fanno. Sei stata brava, davvero».
Le aveva tolto un peso
dal cuore. Quel tarlo insistente che la rodeva fin dalla prima diagnosi, quando
aveva cominciato a rimproverarsi per non essersi accorta prima di quel nodulo,
per non aver capito subito che qualcosa non andava. Le parole di Franca
l'avevano fatta riflettere. Sì, forse avrebbe potuto accorgersene prima,
insistere di più per anticipare l'ecografia, guadagnare qualche settimana. Ma
se non avesse fatto l'autopalpazione, chissà quando se ne sarebbe accorta.
Forse troppo tardi.
Ma il cancro era solo
una piccola parte delle loro conversazioni: avevano discusso di libri, di film,
di shopping, di lavoro, di figli, di vacanze, di vita. Paradossalmente, era più
facile parlare in day hospital di argomenti che non riguardassero la malattia,
piuttosto che fuori. Familiari e amici le chiedevano sempre come stava, come
andavano le terapie. Nessuno si preoccupava di sapere quale libro stava
leggendo oppure com'era andato il primo giorno di scuola o di asilo dei
bambini. In quelle stanze che odoravano di medicinali, in mezzo a quelle donne
senza capelli, lei sentiva di non essere soltanto una malata di cancro. Era
ancora una donna, una mamma, una moglie, una figlia, un avvocato. Aveva ancora
una vita. E voleva farla durare più a lungo possibile.
Dopo i cicli di
chemioterapia era arrivato il momento dell'intervento chirurgico. Aveva pianto
di nuovo davanti alle cicatrici di quello che restava del suo seno, ma poi le
era tornata in mente una frase di Elena: "Io sono molto di più delle mie
tette!". Giusto, lei era di più. E sapeva che più avanti avrebbe potuto
fare la ricostruzione. Si era asciugata le lacrime. Il viaggio continuava.
Aveva ritrovato Franca
e Daria in radioterapia, un incontro tra amiche che aveva riempito di risate la
sala d'attesa, sotto gli sguardi prima sorpresi e poi divertiti degli altri
pazienti.
Ma in radioterapia aveva
fatto anche un altro incontro: Davide, un bambino di otto anni, l'età del più
grande dei suoi figli. Due occhi immensi e cerchiati di viola in un visino pallido,
sotto un berretto da baseball. Quando aveva incrociato quegli occhi, qualcosa
si era spezzato dentro di lei. Aveva cercato con lo sguardo l'infermiera, in
una domanda muta. Lei aveva fatto cenno di no con la testa.
Davide stava uscendo
con la sua mamma dalla stanza colorata riservata ai bambini. Parlavano di un
papero, e ridevano. Lei li aveva fissati, esterrefatta: come poteva ridere,
quella donna, mentre suo figlio stava morendo?
L'aveva chiesto a
Franca, dopo, e l'amica si era stretta nelle spalle, senza rispondere. Probabilmente
pensava ai suoi nipotini.
Dieci minuti più tardi,
mentre prendeva un caffè al distributore automatico, aveva visto con la coda
dell'occhio la mamma di Davide che si avvicinava. Aveva fissato ostinatamente
lo sguardo sulla macchinetta, per non guardarla.
«A Davide è stato
concesso poco tempo». La voce dietro di lei l'aveva sorpresa, stava quasi per
lasciar cadere il bicchierino del caffè che aveva appena prelevato dal
distributore. «Io sto cercando di riempire questo tempo di risate, invece che
di lacrime».
Si era girata con gli
occhi bassi, vergognandosi dei suoi pensieri di poco prima.
La mamma di Davide
l'aveva guardata, con un sorriso triste. «Piango, sa? Tanto. Ma cerco di non
farlo mai davanti a lui».
«Ha ragione, ha
perfettamente ragione. Fa benissimo». Non si era mai sentita così mortificata. «È
che… ho un bambino della stessa età e io… io non credo che ce la farei. Lei è
davvero brava. Speciale. Davvero».
«No, non sono speciale.
Sono solo una mamma. Faccio quello che fanno tutte le mamme. Cerco di fare in
modo che mio figlio sia felice, più felice possibile, per più tempo possibile.
Se ci pensa, sicuramente è quello che fa anche lei».
Quella semplice verità
l'aveva colpita con una tale forza da lasciarla senza fiato. Quella donna,
sconosciuta fino a pochi minuti prima, era diventata un'altra compagna di viaggio.
Si chiamava Giulia. Le aveva offerto il caffè ed era rimasta ad ascoltarla
mentre raccontava di Davide, dei suoi giochi preferiti e delle favole che
inventava per lui. Quella sera, a casa, aveva pianto a lungo tra le braccia di
suo marito. Piangeva per Davide e per Giulia che lo accompagnava, ridendo, nel
suo viaggio troppo breve.
La settimana seguente
era tornata al day hospital per la visita di controllo con l'oncologo. La sala
d'attesa con le sedie blu ormai le era diventata familiare e si sorprese a
pensare a quante cose fossero cambiate da quel giorno di sette mesi prima,
dall'inizio del suo viaggio. Davvero erano passati solo sette mesi? Si sentiva
così diversa da quella donna che cercava di non farsi vedere piangere, che le
pareva fosse trascorsa una vita intera.
Aveva imparato più cose
in quei sette mesi che in sette anni di vita "normale". Aveva smesso
di combattere e iniziato a camminare, con più ostinazione che rabbia. Aveva
deciso che il desiderio di guarire doveva essere più forte della paura di non
farcela. Aveva cominciato ad ascoltarsi e a rispettare di più il suo corpo.
Aveva scoperto inaspettati motivi per sorridere anche nelle situazioni più
difficili. Le era arrivato più aiuto di quanto ne avesse chiesto, talvolta
anche da dove non se lo sarebbe mai aspettato.
Aveva incontrato
persone fantastiche. Ognuna delle sue compagne di viaggio le aveva regalato
qualcosa di prezioso: comprensione, appoggio, ironia, speranza, saggezza.
Avevano riso e pianto insieme, senza vergognarsi. Alcune continuavano a
camminare al suo fianco, per altre il viaggio si era interrotto. Tutte avevano
un posto nel suo cuore.
La voce
dall'altoparlante che chiamava il numero trentasette l'aveva riportata alla
realtà. Aveva visto una giovane donna alzarsi con l'aria smarrita di chi non sa
dove andare. Le si era avvicinata, sorridendo: «Prima chemio? Venga, la
accompagno io».
2° classificato al concorso letterario nazionale "Scriviamoci con cura. Un racconto per levare l'ancora con la scrittura" promosso dall'Istituto Nazionale Tumori CRO di Aviano, edizione 2014