Stavo facendo la spesa al supermercato, avevo appena lasciato il reparto ortofrutta con il carrello colmo di arance, clementine, lattuga, cipolle, carote, sedano, porri, indivia, patate, radicchio, banane, mandorle, fave e cavolo nero, quando è squillato il telefono.
Numero della provincia di Pordenone, forse un cliente.
Risposta professionale: "Lazzarini, buongiorno".
"Signora Camilla? Qui è il CRO di Aviano. La chiamo per fissare gli esami di pre-ricovero. Le andrebbe bene giovedì 7?".
Il giovedì è la mia giornata jolly, l'unica in cui non ho impegni di lavoro fissi.
"Giovedì 7 va benissimo, è perfetto."
È seguita una serie di istruzioni: presentarsi alle 8 a digiuno per il prelievo di sangue, poi passare all'ambulatorio pre-ricoveri per gli esami strumentali e infine, nel primo pomeriggio, colloquio con l'anestesista.
Sono riusciti a organizzare tutto in un'unica giornata: ottimo.
Ho ripetuto l'iter per assicurarmi di aver capito tutto bene, ringraziato e riagganciato.
Un vuoto allo stomaco, una vertigine.
Una sensazione che mi accompagna anche adesso, a dieci ore di distanza da quella telefonata, che pure non mi ha detto niente di nuovo o inatteso. Ma all'improvviso tutto è diventato reale, concreto e imminente. Quelli che fino a pochi secondi prima erano soltanto esercizi mentali, di colpo si sono trasformati in cose da fare, tempi da organizzare, rischi da affrontare.
Questa reazione mi ha spiazzato, non è da me, rivela una fragilità insolita e inaspettata, perché non si era manifestata nelle due precedenti occasioni, che pure partivano da situazioni cliniche ben più gravi.
Forse allora ero più incosciente? Avevo - o pensavo di avere - meno da perdere? Oppure, forse, dieci anni passati all'ombra del cancro hanno scalfito le mie difese.
Spunti di riflessione interessanti. Ci penserò su mentre preparo le mie liste di cose da fare e da portare. Intanto ho fatto rifornimento di ebook.
giovedì 31 dicembre 2015
giovedì 24 dicembre 2015
Buon Natale!
Adesso, finalmente, c'è aria di Natale.
Fino a ieri no. Troppe cose da fare, troppo poco tempo da passare a casa. E quasi niente sotto l'albero.
Non parlo dei regali per me, di quelli ce n'era già qualcuno, ma per creare davvero l'atmosfera natalizia serve un albero pieno di regali da offrire, di pensieri per le persone care. Perché altrimenti che Natale è?
Ieri sera, in poche ore è cambiato tutto: sono arrivati tutti i regali che avevo ordinato on line, li ho impacchettati e finalmente il mio albero ha assunto il suo significato pieno.
Adesso, comodamente stravaccati sul divano, sotto attenta sorveglianza micesca, aspettiamo sereni la mezzanotte.
Buon Natale!
Fino a ieri no. Troppe cose da fare, troppo poco tempo da passare a casa. E quasi niente sotto l'albero.
Non parlo dei regali per me, di quelli ce n'era già qualcuno, ma per creare davvero l'atmosfera natalizia serve un albero pieno di regali da offrire, di pensieri per le persone care. Perché altrimenti che Natale è?
Ieri sera, in poche ore è cambiato tutto: sono arrivati tutti i regali che avevo ordinato on line, li ho impacchettati e finalmente il mio albero ha assunto il suo significato pieno.
Adesso, comodamente stravaccati sul divano, sotto attenta sorveglianza micesca, aspettiamo sereni la mezzanotte.
Buon Natale!
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domenica 20 dicembre 2015
2 al prezzo di 1
Venerdì sono passata a ritirare l'esito della biopsia: è stato confortante vedere nero su bianco che il tessuto prelevato era semplicemente di tipo fibroso e adiposo, confermando che si tratta un lipoma.
Poi ho incontrato l'oncologo e il chirurgo, che inizialmente ha minimizzato la situazione, dicendo che un lipoma non crea problemi. Gli ho fatto notare che oltre al lipoma c'è anche il linfocele e lui ha risposto che nemmeno un linfocele crea problemi. Già, ho insistito, però la somma dei due qualche problema me lo sta creando.Ha continuato a mostrare scetticismo... almeno fino a quando l'oncologo ha iniziato a far scorrere sul monitor le immagini della TAC. Quando il chirurgo ha visto la dimensione e la posizione del linfocele, ha cambiato espressione e ha chiesto di esaminare direttamente la mia pancia per valutarne al tatto l'estensione.
Occhiata generale, pressione sul lato sinistro dell'addome. Tutto bene. Pressione sul lato destro. Ahi! Altra pressione. Ahi! Altra pressione. Ahi! Altra pressione. Ahi!
A quel punto il chirurgo aveva abbastanza chiaro il volume in questione e non ha più avuto esitazioni: togliamo. Sia il lipoma che il linfocele.
Ma come per ogni offerta speciale, bisogna fare attenzione alle fregature.
L'asportazione del lipoma non dovrebbe essere un problema. Il linfocele invece potrebbe esserlo, perché per fare un buon lavoro, bisogna rimuovere completamente la capsula che lo riveste. Il rischio è che si siano formate aderenze con i tessuti circostanti, cosa che complicherebbe parecchio l'intervento e il successivo recupero.
In base alle immagini della TAC, il chirurgo ha individuato in particolare due possibili complicazioni. In caso di aderenze con l'intestino, sarebbe necessario tagliarne un pezzo, operazione delicata ma fattibile e con conseguenze a lungo termine abbastanza modeste. Se invece le aderenze coinvolgessero l'uretere, la rimozione completa della capsula sarebbe molto più difficile e comporterebbe un rischio elevato di danni gravi e permanenti, per cui sarebbe più prudente evitare di togliere quella parte, accettando il rischio che il linfocele si riformi.
A seconda della situazione che si presenterà aprendo l'addome, la complessità dell'intervento potrebbe quindi variare di molto: il chirurgo, per darmi un'idea, ha detto che se si pone il caso migliore (niente aderenze) a livello 10, l'eventuale resezione intestinale lo porterebbe 60.
L'operazione deve quindi essere programmata in modo da avere a disposizione tutto il tempo che potrebbe essere necessario: non è possibile inserirla nel calendario già affollato dei pochi giorni lavorativi del periodo natalizio, ma andremo alla metà di gennaio. Nel frattempo, il chirurgo rivaluterà la TAC con il radiologo, per cercare di identificare tutte le possibili criticità.
Vuoi vedere che questa volta vinco la "settimana bianca" in ospedale proprio per il mio compleanno?
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sabato 12 dicembre 2015
Un grande vuoto
Non è maligno.
Questo l'esito dell'istologico che mi ha anticipato l'oncologo.
Sospiro di sollievo.
In mezzo alle lacrime.
Renato ieri ha trovato il Ciccio acciambellato nel suo cestino, sembrava addormentato. Ma non si sveglierà più.
Non c'è stato alcun preavviso: fino al giorno prima stava benissimo; nessuna ferita, nessun segno di sofferenza. Se n'è andato serenamente, alla fine di una vita lunga e - ci auguriamo - felice.
Resta il rimpianto di non averlo potuto salutare, di non essere stata lì con lui, ad accompagnarlo nelle ultime ore del suo viaggio.
Mi mancherà il nostro gattone.
Il nostro vecchietto con tre zampe.
Lui che faceva sempre lo schizzinoso con il cibo.
Lui che voleva le coccole ma non si lasciava prendere in braccio.
Lui che faceva merenda con il latte.
Lui che odiava la neve.
Lui che aveva la sindrome dell'abbandono.
Lui che ogni volta che vedeva una valigia ci si infilava dentro per impedirci di partire.
Lui che adorava il pollo arrosto.
Lui che occupava da solo tre quarti del letto.
Lui che dal veterinario si spalmava come un budino.
Lui che d'estate veniva a casa solo per mangiare.
Lui che era la mia gattoterapia.
Lui che nei momenti importanti c'era sempre. E adesso non c'è più.
Questo l'esito dell'istologico che mi ha anticipato l'oncologo.
Sospiro di sollievo.
In mezzo alle lacrime.
Renato ieri ha trovato il Ciccio acciambellato nel suo cestino, sembrava addormentato. Ma non si sveglierà più.
Non c'è stato alcun preavviso: fino al giorno prima stava benissimo; nessuna ferita, nessun segno di sofferenza. Se n'è andato serenamente, alla fine di una vita lunga e - ci auguriamo - felice.
Resta il rimpianto di non averlo potuto salutare, di non essere stata lì con lui, ad accompagnarlo nelle ultime ore del suo viaggio.
Mi mancherà il nostro gattone.
Il nostro vecchietto con tre zampe.
Lui che faceva sempre lo schizzinoso con il cibo.
Lui che voleva le coccole ma non si lasciava prendere in braccio.
Lui che faceva merenda con il latte.
Lui che odiava la neve.
Lui che aveva la sindrome dell'abbandono.
Lui che ogni volta che vedeva una valigia ci si infilava dentro per impedirci di partire.
Lui che adorava il pollo arrosto.
Lui che occupava da solo tre quarti del letto.
Lui che dal veterinario si spalmava come un budino.
Lui che d'estate veniva a casa solo per mangiare.
Lui che era la mia gattoterapia.
Lui che nei momenti importanti c'era sempre. E adesso non c'è più.
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martedì 8 dicembre 2015
Ora di cambiamenti
Ogni tanto bisogna avere il coraggio di fare qualche cambiamento. Anche se non sembra necessario, anche se le cose che sono sempre andate bene così come sono.
Il cambiamento è faticoso, richiede lo sforzo di uscire dalla comodità dell'abitudine. Ma è necessario per evolversi, per guardare avanti. Ecco perché ho deciso di cambiare qualcosa.
Avevo bisogno di sostituire le vecchie lucine dell'albero, di cui ormai meno della metà era ancora funzionante; e con l'occasione pensavo di acquistare anche qualche nuova decorazione.
Ho guardato con un pizzico di rimpianto alcune deliziose confezioni di decorazioni in vetro, bellissime ma decisamente poco compatibili con la nostra tribù felina (ricordate com'era andata due anni fa?). No, non è proprio il caso, ma sono rinunce davvero da poco rispetto alla gioia di avere i nostri pelosetti sempre intorno.
Da più di trent'anni il mio albero di Natale era decorato in rosso e oro; avevo già messo nel carrello una confezione di sfere rosse e stavo per prendere quelle dorate, quando ho deciso che era ora di fare qualcosa di diverso.
Ho rimesso tutto sullo scaffale e mi sono guardata intorno. Bianco, argento, viola, blu, rosa... mmmhhh.... E poi, finalmente, eccole: sfere grandi e piccole, alberelli e stelle, lucidi e satinati, nelle tonalità dall'avorio al bronzo.
Qualche esitazione, qualche dubbio.
Vale la pena di fare questa spesa? Non occuperanno troppo spazio quando sarà il momento di riporle?
Ma la vera domanda era un'altra: in questo momento di incertezza, mentre aspetto l'esito della biopsia, è il caso di fare un investimento, per quanto piccolo, per il futuro? Quando mi sono decisa a formularla in modo chiaro nella mia mente, ho allungato la mano verso lo scaffale e ho riempito il carrello con dieci confezioni di decorazioni.
Sì, ne vale la pena. Perché se rinuncio a pensare al futuro, ho già perso.
PS: sapete una cosa? Il mio nuovo albero di Natale mi piace un sacco!
Il cambiamento è faticoso, richiede lo sforzo di uscire dalla comodità dell'abitudine. Ma è necessario per evolversi, per guardare avanti. Ecco perché ho deciso di cambiare qualcosa.
Avevo bisogno di sostituire le vecchie lucine dell'albero, di cui ormai meno della metà era ancora funzionante; e con l'occasione pensavo di acquistare anche qualche nuova decorazione.
Ho guardato con un pizzico di rimpianto alcune deliziose confezioni di decorazioni in vetro, bellissime ma decisamente poco compatibili con la nostra tribù felina (ricordate com'era andata due anni fa?). No, non è proprio il caso, ma sono rinunce davvero da poco rispetto alla gioia di avere i nostri pelosetti sempre intorno.
Da più di trent'anni il mio albero di Natale era decorato in rosso e oro; avevo già messo nel carrello una confezione di sfere rosse e stavo per prendere quelle dorate, quando ho deciso che era ora di fare qualcosa di diverso.
Ho rimesso tutto sullo scaffale e mi sono guardata intorno. Bianco, argento, viola, blu, rosa... mmmhhh.... E poi, finalmente, eccole: sfere grandi e piccole, alberelli e stelle, lucidi e satinati, nelle tonalità dall'avorio al bronzo.
Qualche esitazione, qualche dubbio.
Vale la pena di fare questa spesa? Non occuperanno troppo spazio quando sarà il momento di riporle?
Ma la vera domanda era un'altra: in questo momento di incertezza, mentre aspetto l'esito della biopsia, è il caso di fare un investimento, per quanto piccolo, per il futuro? Quando mi sono decisa a formularla in modo chiaro nella mia mente, ho allungato la mano verso lo scaffale e ho riempito il carrello con dieci confezioni di decorazioni.
Sì, ne vale la pena. Perché se rinuncio a pensare al futuro, ho già perso.
PS: sapete una cosa? Il mio nuovo albero di Natale mi piace un sacco!
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riflessioni (quasi) serie
venerdì 4 dicembre 2015
Biopsimpressioni
- La mia Brontofelpa (cioè la felpa di Brontolo che ho preso anni fa a Disneyland Paris) si conferma ideale per queste occasioni: ha il giusto livello di pesantezza per la temperatura da ospedale, la zip la rende facile da indossare e togliere, le ampie tasche a marsupio possono accogliere tutto quello che serve avere a portata di mano, le maniche larghe si sollevano facilmente per consentire di infilare l'ago nel braccio e, beneficio non trascurabile, mi rende ben riconoscibile al personale sanitario.
- Le poltroncine nelle nuove sale d'attesa del CRO sono molto più comode di quelle vecchie; ovviamente ho passato solo pochi minuti in una sala d'attesa nuova e più di un'ora e mezza in una di quelle vecchie, con le scomodissime sedute di legno (e non mi dovrei nemmeno lamentare, visto che Renato di ore ce ne ha passate almeno quattro, mentre per le ultime due io ero stesa sulla barella).
- Nessuno nasce imparato e tutto sommato forse è meglio che la giovane dottoressa in addestramento sia capitata a me piuttosto che a qualcun altro con una minore tolleranza al dolore; però avrei preferito che il secondo prelievo fosse andato abbastanza liscio come il primo.
- Quel lieve soffio d'aria fresca nella stanza della TAC può essere simpatico d'estate, ma se ti arriva addosso per quaranta minuti, mentre sei in canottiera, in dicembre, è tutta un'altra cosa: quando sono uscita mi ci è voluto un bel po' per smettere di tremare.
- Le barelle che si vedevano in ospedale quando ero bambina erano poco più di tavole con le ruote; quelle di oggi sono enormemente più confortevoli, ma non risolvono un annoso problema: dove si mettono le braccia per evitare di lasciarle penzolare ai lati? (risposta: nelle comode tasche della Brontofelpa!)
- Che triste passare due ore in una stanza, rivolta verso una parete quasi interamente a vetri, senza vedere nemmeno uno spicchio di cielo o di panorama perché la vista è completamente ostruita da un'ala di edificio, dai frangisole (perché poi mettere i frangisole su una facciata su cui il sole non batte mai?) e dalle veneziane. E io che speravo di avvistare qualche scoiattolo...
- Il mio oncologo che passa a vedere come va e si preoccupa perché ho gli occhi lucidi come se avessi pianto; gli ho spiegato che stavo semplicemente sbadigliando (di noia) da quasi un'ora, ma non credo che ci abbia creduto perché si è intenerito e mi ha dato un buffetto sulla guancia.
- Tornare a casa e trovare il comitato di accoglienza felina è sempre una terapia di straordinaria efficacia.
- I dolori e i fastidi che hanno caratterizzato tutta la giornata di martedì mi avevano fatto temere tempi di recupero lunghi, invece dopo una notte di buon sonno è tornato tutto alla normalità.
PS: non ho ancora notizie dell'esito; in teoria dovrebbe essere pronto per il 21 dicembre, ma l'oncologo ha detto che mi chiamerà appena saprà qualcosa.
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riflessioni (quasi) serie
martedì 1 dicembre 2015
Velocissimamente
Aggiornamento rapido, poi torno a stendermi.
Ho fatto la biopsia stamattina, è stata una cosa abbastanza lunga e discretamente dolorosa, condita con più o meno una decina di passaggi di TAC (dacci oggi la nostra dose di radiazioni quotidiana...) per identificare l'area, verificare il corretto posizionamento del marcatore, verificare il corretto posizionamento del primo ago, del secondo ago, controllare subito dopo, ricontrollare un paio d'ore dopo.
E adesso si aspetta.
Distesa, per oggi, perché il fastidio si sente ancora.
Ho fatto la biopsia stamattina, è stata una cosa abbastanza lunga e discretamente dolorosa, condita con più o meno una decina di passaggi di TAC (dacci oggi la nostra dose di radiazioni quotidiana...) per identificare l'area, verificare il corretto posizionamento del marcatore, verificare il corretto posizionamento del primo ago, del secondo ago, controllare subito dopo, ricontrollare un paio d'ore dopo.
E adesso si aspetta.
Distesa, per oggi, perché il fastidio si sente ancora.
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cancronache
giovedì 26 novembre 2015
Senza asterischi
Finalmente ci siamo: l'appuntamento per la biopsia è stato fissato per martedì 1 dicembre.
Me lo ha comunicato l'oncologo con una mail inviata lunedì alle 19:51. Tanto per capire fino a che ora lavora.
Quando ho letto la mail, un paio d'ore dopo, la situazione si è fatta di colpo concreta. Certo, sapevo anche prima qual era il programma, ma senza una data di riferimento non era un vero piano, rimaneva qualcosa di astratto, un'idea non completamente definita. Di colpo, si sono materializzate scadenze precise da rispettare, con tempi anche piuttosto stretti.
Per l'esame sono richieste alcune analisi del sangue e non ho avuto nemmeno bisogno di controllare l'agenda per sapere che dovevo organizzarmi in fretta per riuscire a incastrare il prelievo tra gli impegni di lavoro. Mi serviva prima di tutto l'impegnativa del medico di base, che ho richiesto con un SMS (viva la tecnologia!); ieri mattina sono andata a ritirarla e poi subito in ospedale per il prelievo. Fortunatamente non c'era molta gente e me la sono cavata abbastanza velocemente, rientrando in ufficio relativamente presto.
Poco fa ho scaricato dal sito dell'USSL il referto e...
Erano anni - letteralmente - che non mi capitava di trovarlo completamente privo di asterischi. Robe da non credere, persino i globuli bianchi sono normali.
Ehm... Lo ammetto, sto barando un po'.
È vero che tutti i valori sono perfettamente nella norma, ma è anche vero che sono solo una piccola parte di quelli che controllo di solito e mancano proprio quelli che più spesso sono alterati. Ma io sono contenta lo stesso.
Me lo ha comunicato l'oncologo con una mail inviata lunedì alle 19:51. Tanto per capire fino a che ora lavora.
Quando ho letto la mail, un paio d'ore dopo, la situazione si è fatta di colpo concreta. Certo, sapevo anche prima qual era il programma, ma senza una data di riferimento non era un vero piano, rimaneva qualcosa di astratto, un'idea non completamente definita. Di colpo, si sono materializzate scadenze precise da rispettare, con tempi anche piuttosto stretti.
Per l'esame sono richieste alcune analisi del sangue e non ho avuto nemmeno bisogno di controllare l'agenda per sapere che dovevo organizzarmi in fretta per riuscire a incastrare il prelievo tra gli impegni di lavoro. Mi serviva prima di tutto l'impegnativa del medico di base, che ho richiesto con un SMS (viva la tecnologia!); ieri mattina sono andata a ritirarla e poi subito in ospedale per il prelievo. Fortunatamente non c'era molta gente e me la sono cavata abbastanza velocemente, rientrando in ufficio relativamente presto.
Poco fa ho scaricato dal sito dell'USSL il referto e...
Erano anni - letteralmente - che non mi capitava di trovarlo completamente privo di asterischi. Robe da non credere, persino i globuli bianchi sono normali.
Ehm... Lo ammetto, sto barando un po'.
È vero che tutti i valori sono perfettamente nella norma, ma è anche vero che sono solo una piccola parte di quelli che controllo di solito e mancano proprio quelli che più spesso sono alterati. Ma io sono contenta lo stesso.
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domenica 8 novembre 2015
Io non penso positivo
Capisco la buona intenzione e la apprezzo sinceramente, ma a me questa espressione non piace.
Pensare positivo mi dà l'idea di un ottimismo forzato, di un'ottusa negazione della possibilità che qualcosa vada storto, di un'artificiosa fuga in una dimensione ideale.
Sembra quasi che pensare positivo serva in qualche modo a fare in modo che non accada mai nulla di brutto, mentre se non pensi positivo ti chiami addosso le disgrazie, o quasi.
È una rappresentazione molto significativa di una cultura contemporanea in cui tutti devono essere perennemente sani, belli e felici. Guai a parlare di invecchiamento, di malattia e (non sia mai!) di morte, guai anche solo a pensare a queste cose! Sono tabù, vanno tenute nascoste, sono i panni sporchi da lavare in casa, la polvere da nascondere sotto il tappeto.
Questo non mi appartiene.
Non vedo alcun vantaggio nel cercare di convincersi che le cose andranno sempre per il meglio, credo sia molto più utile imparare a fare i conti con la possibilità che si verifichino anche situazioni negative.Questo non vuol dire aspettarsi sempre il peggio, men che meno sprofondare nell'autocommiserazione e nel piagnisteo, ma semplicemente accettare l'idea che può accadere qualcosa di sgradevole e proprio grazie a questa consapevolezza, apprezzare tutte le cose belle che si incontrano ogni giorno. Significa dare maggior valore a ciò che accade di buono, proprio perché non è scontato. Significa vivere pienamente.
Io non penso positivo.
Io vivo positivo.
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riflessioni (quasi) serie
giovedì 5 novembre 2015
Programma
Sono una maniaca della pianificazione.
Ho un bisogno compulsivo di programmare, di organizzare le mie attività. Compilo liste su liste di cose da fare, raggruppate per argomento, per importanza, per priorità. Lo schermo del mio PC è invaso da post-it virtuali, sulla mia scrivania non manca mai un foglio riciclato con un elenco di voci parzialmente spuntate.
Dopo ogni riunione preparo una tabella con gli impegni assegnati a ciascuno dei partecipanti. Non vado mai a fare la spesa senza una lista di articoli da acquistare, non riempio mai una valigia senza avere in mano la lista delle cose da metterci dentro, non parto per una vacanza senza una lista di cose da vedere.
Ma non significa che io poi segua questi programmi.
La pianificazione per me è sempre flessibile, è una linea guida, mai una gabbia.
Le mie liste vengono continuamente riorganizzate, riassegnando le priorità in base a quello che succede giorno per giorno, ora per ora. Torno sempre dalla spesa con qualcosa in più e qualcosa in meno di quello che avevo in lista e in vacanza faccio sempre qualcosa di diverso da quello che avevo previsto.
Non sono mai schiava dei miei programmi, però mi aiutano a gestire il mio tempo, mi danno una traccia da seguire e, paradossalmente, mi permettono di affrontare meglio gli imprevisti. So che può sembrare strano, ma il fatto stesso di realizzare una pianificazione richiede di analizzare situazioni, tempi, risorse e alternative e questa conoscenza torna molto utile per gestire gli imprevisti.
I programmi sono rassicuranti.
Al contrario, l'incertezza sulle cose da fare mi mette a disagio, mi fa temere di perdere il controllo della situazione, di finire in balia degli eventi.
Ho accolto quindi con discreta buona grazia il responso della TAC.
Il lipoma, la palla di lardo, è cresciuto di alcuni centimetri rispetto all'inizio di giugno e comprime visibilmente l'intestino: i medici dell'equipe sarcomi del CRO hanno concordato che è il caso di toglierlo, ma prima dell'intervento, preferiscono effettuare una biopsia, giusto per non avere sorprese in sala operatoria (ricordate? pianificare!).
La settimana prossima dovrebbero comunicarmi la data della biopsia, verosimilmente nella seconda metà di novembre, mentre l'intervento sarà indicativamente a dicembre.
Mi pare un programma ragionevole, corrisponde a quello che il mio buon senso suggeriva.
Però non lo trovo rassicurante come al solito. Chissà perché...
Ho un bisogno compulsivo di programmare, di organizzare le mie attività. Compilo liste su liste di cose da fare, raggruppate per argomento, per importanza, per priorità. Lo schermo del mio PC è invaso da post-it virtuali, sulla mia scrivania non manca mai un foglio riciclato con un elenco di voci parzialmente spuntate.
Dopo ogni riunione preparo una tabella con gli impegni assegnati a ciascuno dei partecipanti. Non vado mai a fare la spesa senza una lista di articoli da acquistare, non riempio mai una valigia senza avere in mano la lista delle cose da metterci dentro, non parto per una vacanza senza una lista di cose da vedere.
Ma non significa che io poi segua questi programmi.
La pianificazione per me è sempre flessibile, è una linea guida, mai una gabbia.
Le mie liste vengono continuamente riorganizzate, riassegnando le priorità in base a quello che succede giorno per giorno, ora per ora. Torno sempre dalla spesa con qualcosa in più e qualcosa in meno di quello che avevo in lista e in vacanza faccio sempre qualcosa di diverso da quello che avevo previsto.
Non sono mai schiava dei miei programmi, però mi aiutano a gestire il mio tempo, mi danno una traccia da seguire e, paradossalmente, mi permettono di affrontare meglio gli imprevisti. So che può sembrare strano, ma il fatto stesso di realizzare una pianificazione richiede di analizzare situazioni, tempi, risorse e alternative e questa conoscenza torna molto utile per gestire gli imprevisti.
I programmi sono rassicuranti.
Al contrario, l'incertezza sulle cose da fare mi mette a disagio, mi fa temere di perdere il controllo della situazione, di finire in balia degli eventi.
Ho accolto quindi con discreta buona grazia il responso della TAC.
Il lipoma, la palla di lardo, è cresciuto di alcuni centimetri rispetto all'inizio di giugno e comprime visibilmente l'intestino: i medici dell'equipe sarcomi del CRO hanno concordato che è il caso di toglierlo, ma prima dell'intervento, preferiscono effettuare una biopsia, giusto per non avere sorprese in sala operatoria (ricordate? pianificare!).
La settimana prossima dovrebbero comunicarmi la data della biopsia, verosimilmente nella seconda metà di novembre, mentre l'intervento sarà indicativamente a dicembre.
Mi pare un programma ragionevole, corrisponde a quello che il mio buon senso suggeriva.
Però non lo trovo rassicurante come al solito. Chissà perché...
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martedì 27 ottobre 2015
Parliamo di cose belle
Periodo di controlli con la testa tra le nuvole. Ieri mattina prima di andare al lavoro sono dovuta rientrare tre volte in casa a prendere qualcosa che avevo dimenticato, stamattina stavo andando al CRO a fare la TAC in ciabatte, me ne sono resa conto dopo essere uscita dalla porta.
Subito dopo la TAC ho fatto la visita con l'oncologo, e intendo proprio subito, questione di un quarto d'ora.
È la prima volta in poco meno di dieci anni che l'oncologo mi vede con qualche minuto di anticipo rispetto all'orario stabilito, quindi aspettatevi qualche catastrofe: terremoti, alluvioni, invasioni di cavallette, un nuovo disco di Gigi d'Alessio...
Come al solito, per evitare reazioni allergiche al mezzo di contrasto avevo dovuto fare la premedicazione con cortisone e antistaminico: ha funzionato, ma con il consueto effetto collaterale: nel pomeriggio ho dormito più di quattro ore.
Per avere l'esito ci vorrà qualche giorno: nel frattempo, meglio pensare ad altro, possibilmente a qualcosa di bello.
Gratitudine.
Ecco cosa mi ha regalato la serata di sabato.
Gratitudine per l'amica Marta che quasi due mesi fa mi ha segnalato l'evento, gratitudine per avervi potuto assistere.
Amo il musical e amo due musical in particolare. Uno è Les Miserables, che voglio assolutamente riuscire a vedere dal vivo prima o poi, anche se per farlo dovrò andare a Londra (o forse proprio per questo!). L'altro è Jesus Christ Superstar, che ho visto per la prima volta una trentina d'anni fa in un allestimento ridotto, con musica registrata e senza scenografie, e poi più di recente, forse sette/otto anni fa, sempre in versione semplificata, in una rassegna estiva di musica all'aperto.
Ma finalmente sabato ho potuto assistere a un allestimento completo, con musica dal vivo, scenografie, costumi... e soprattutto con un cast straordinario.
Tutti bravi, con menzioni speciali per Pilato (Emiliano Geppetti), Caifa (Francesco Mastroianni), Maddalena (Simona Distefano) e Hannas (Paride Acacia).
E poi c'era lui. Ted Neeley. Quello vero.
Il Gesù del film del 1973 oggi ha 72 anni e una voce ancora di tutto rispetto.
Ho avuto qualche dubbio all'inizio, quando la precisione delle note non mi sembrava accompagnata da un'adeguata potenza vocale, ma da Hosanna in poi è stato un crescendo, fino a una straordinaria Gethsemane, che si è conclusa con una meritatissima standing ovation.
Dopo lo spettacolo, Marta e io ci siamo messe in fila come due ragazzine per gli autografi. Più di due ore di attesa prima di riuscire finalmente a raggiungere il protagonista, tra le raccomandazioni degli addetti alla sicurezza di non dilungarci troppo.
Ci abbiamo messo tutta la nostra buona volontà, ma non è stato proprio possibile fare in fretta, non per causa nostra ma perché il calore umano di Ted è semplicemente incontenibile.
Quando ci siamo avvicinate, stava scambiando le ultime parole con un'altra fan, ma mi ha subito preso la mano. L'ho salutato con le prime parole di King's Herod Song: "Jesus, I am overjoyed to meet you face to face" (Gesù, sono felicissima di incontrarti faccia a faccia). Lui ridendo ha risposto: "Where did I hear these words before?" (Dove ho già sentito queste parole?).
L'ho ringraziato per le grandi emozioni che ci aveva regalato e lui mi ha chiesto se avevo cantato durante tutto lo spettacolo. Ovviamente sì.
Ci ha abbracciate più volte, continuando a tenermi la mano anche dopo la foto di rito.
Siamo tornate a casa con il cuore pieno di emozione per avere avuto l'opportunità di conoscere un artista straordinario, ma soprattutto una persona straordinaria.
Subito dopo la TAC ho fatto la visita con l'oncologo, e intendo proprio subito, questione di un quarto d'ora.
È la prima volta in poco meno di dieci anni che l'oncologo mi vede con qualche minuto di anticipo rispetto all'orario stabilito, quindi aspettatevi qualche catastrofe: terremoti, alluvioni, invasioni di cavallette, un nuovo disco di Gigi d'Alessio...
Come al solito, per evitare reazioni allergiche al mezzo di contrasto avevo dovuto fare la premedicazione con cortisone e antistaminico: ha funzionato, ma con il consueto effetto collaterale: nel pomeriggio ho dormito più di quattro ore.
Per avere l'esito ci vorrà qualche giorno: nel frattempo, meglio pensare ad altro, possibilmente a qualcosa di bello.
Gratitudine.
Ecco cosa mi ha regalato la serata di sabato.
Gratitudine per l'amica Marta che quasi due mesi fa mi ha segnalato l'evento, gratitudine per avervi potuto assistere.
Amo il musical e amo due musical in particolare. Uno è Les Miserables, che voglio assolutamente riuscire a vedere dal vivo prima o poi, anche se per farlo dovrò andare a Londra (o forse proprio per questo!). L'altro è Jesus Christ Superstar, che ho visto per la prima volta una trentina d'anni fa in un allestimento ridotto, con musica registrata e senza scenografie, e poi più di recente, forse sette/otto anni fa, sempre in versione semplificata, in una rassegna estiva di musica all'aperto.
Ma finalmente sabato ho potuto assistere a un allestimento completo, con musica dal vivo, scenografie, costumi... e soprattutto con un cast straordinario.
Tutti bravi, con menzioni speciali per Pilato (Emiliano Geppetti), Caifa (Francesco Mastroianni), Maddalena (Simona Distefano) e Hannas (Paride Acacia).
E poi c'era lui. Ted Neeley. Quello vero.
Il Gesù del film del 1973 oggi ha 72 anni e una voce ancora di tutto rispetto.
Ho avuto qualche dubbio all'inizio, quando la precisione delle note non mi sembrava accompagnata da un'adeguata potenza vocale, ma da Hosanna in poi è stato un crescendo, fino a una straordinaria Gethsemane, che si è conclusa con una meritatissima standing ovation.
Dopo lo spettacolo, Marta e io ci siamo messe in fila come due ragazzine per gli autografi. Più di due ore di attesa prima di riuscire finalmente a raggiungere il protagonista, tra le raccomandazioni degli addetti alla sicurezza di non dilungarci troppo.
Ci abbiamo messo tutta la nostra buona volontà, ma non è stato proprio possibile fare in fretta, non per causa nostra ma perché il calore umano di Ted è semplicemente incontenibile.
Quando ci siamo avvicinate, stava scambiando le ultime parole con un'altra fan, ma mi ha subito preso la mano. L'ho salutato con le prime parole di King's Herod Song: "Jesus, I am overjoyed to meet you face to face" (Gesù, sono felicissima di incontrarti faccia a faccia). Lui ridendo ha risposto: "Where did I hear these words before?" (Dove ho già sentito queste parole?).
L'ho ringraziato per le grandi emozioni che ci aveva regalato e lui mi ha chiesto se avevo cantato durante tutto lo spettacolo. Ovviamente sì.
Ci ha abbracciate più volte, continuando a tenermi la mano anche dopo la foto di rito.
Siamo tornate a casa con il cuore pieno di emozione per avere avuto l'opportunità di conoscere un artista straordinario, ma soprattutto una persona straordinaria.
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lunedì 12 ottobre 2015
Conversazioni domestiche - 8
Antefatto: ieri ho dovuto interrompere a metà la preparazione del pranzo perché l'inguine mi faceva molto male e avevo bisogno di stendermi.
Stasera torno un po' in anticipo dalla solita riunione del lunedì.
Lui: "Come va?"
Io: "Insomma... Maluccio."
Lui: "L'inguine?"
Io: "Sì, fa male"
Lui: "Ma... ti sei truccata oggi?"
Io (con una punta di orgoglio): "Solo un po' di matita" (sottotitolo: Te ne se accorto!)
Lui: "Ah, ecco perché hai quegli occhiacci neri!"
Io (punta sul vivo, perché le poche volte che mi trucco di solito lo faccio piuttosto bene): "Grazie, eh!"
Lui: "Ma no, dai! È solo che si vede l'ombra scura del trucco sotto gli occhi"
Io: "Veramente ho fatto solo mezza riga di matita SOPRA gli occhi."
Lui: "Ops! Allora quelle sono occhiaie?"
Io: "Evidentemente sí. Vado a letto che è meglio."
Comincio a essere un po' avvilita.
Stasera torno un po' in anticipo dalla solita riunione del lunedì.
Lui: "Come va?"
Io: "Insomma... Maluccio."
Lui: "L'inguine?"
Io: "Sì, fa male"
Lui: "Ma... ti sei truccata oggi?"
Io (con una punta di orgoglio): "Solo un po' di matita" (sottotitolo: Te ne se accorto!)
Lui: "Ah, ecco perché hai quegli occhiacci neri!"
Io (punta sul vivo, perché le poche volte che mi trucco di solito lo faccio piuttosto bene): "Grazie, eh!"
Lui: "Ma no, dai! È solo che si vede l'ombra scura del trucco sotto gli occhi"
Io: "Veramente ho fatto solo mezza riga di matita SOPRA gli occhi."
Lui: "Ops! Allora quelle sono occhiaie?"
Io: "Evidentemente sí. Vado a letto che è meglio."
Comincio a essere un po' avvilita.
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La fucina delle idee
Lo scorso weekend sono tornata a Contaci ed è stata ancora una volta una bellissima esperienza.
Contaci non è un congresso medico, ma una fucina di idee, un luogo di incontro per chi vuole migliorare l'oncologia offrendo ai pazienti un'attenzione che va oltre le terapie.
Pazienti, oncologi, infermieri, psicologi, volontari e altre figure che operano in ambito oncologico hanno avuto l'opportunità di confrontarsi e di condividere esperienze e buone pratiche. Tanti bellissimi progetti, tante buone idee: se ogni reparto di oncologia ne attuasse anche solo qualcuna, per migliaia di pazienti il cammino attraverso il cancro sarebbe molto più facile.
Contaci è in un certo senso un'isola felice, perché vi partecipano soprattutto persone "illuminate", che hanno voglia di ascoltare e sono disponibili a mettersi in discussione, mentre quelli che avrebbero più bisogno di cambiare i propri atteggiamenti probabilmente si guardano bene dal farsi coinvolgere. Ma è un modo per diffondere i semi di una nuova cultura sanitaria, che sa andare oltre gli aspetti strettamente clinici per estendere il concetto di salute oltre l'ambito fisico di "assenza di malattia", fino a comprendere il benessere psichico e sociale.
Ci sono stati diversi interventi interessanti, ma sarebbe troppo lungo richiamarli tutti. Cito soltanto alcuni aspetti che mi hanno colpito in modo particolare:
Come influenzare le politiche sanitarie? Come far sentire le nostre esigenze? Belle domande. Magari avessi le risposte!
Sicuramente i pazienti vorrebbero servizi sanitari efficaci, accessibili, personalizzati e anche efficienti, dal momento che li pagano, direttamente o indirettamente, con ticket, onorari e tasse. È l'idea della sanità come azienda e secondo me sarebbe una buona idea, se venisse attuata fino in fondo.
Guardando molte decisioni che vengono adottare in ambito sanitario, mi viene il dubbio che chi le compie non sappia nulla di gestione aziendale. O che ne sappia anche troppo e faccia in modo di volgerlo a proprio vantaggio anziché della collettività. Non si spiega altrimenti perché il concetto di "gestione aziendale" venga così spesso banalmente identificato con quello di "taglio dei costi".
Ridurre i costi è sicuramente importante e utile, se fatto con criterio per eliminare gli sprechi, che in sanità sono davvero tanti. Quando invece viene fatto in modo scriteriato, riducendo la qualità dei servizi per mantenere inutili sovrastrutture a scopo puramente clientelare, è soltanto dannoso e non ha nulla a che vedere con la gestione aziendale, di cui la riduzione dei costi è solo una parte.
Per avere successo, un'azienda deve raggiungere obiettivi di efficacia, migliorare la produttività e l'efficienza, cioè la capacità di utilizzare al meglio le risorse disponibili. Ma soprattutto, per rimanere con successo sul mercato, qualunque azienda deve essere capace di soddisfare le esigenze del cliente.
L'essenza della gestione aziendale non è il taglio dei costi, ma l'attenzione verso il cliente e la capacità di finalizzare tutte le energie e le attività alla sua soddisfazione.
Per soddisfare il paziente oncologico, bisogna conoscere le sue esigenze. Quali sono?
Per dare una risposta, mi sono ispirata alla piramide dei bisogni di Maslow, creandone una mia variante personalizzata.
Il principio di base della teoria di Maslow è che i bisogni devono essere soddisfatti in ordine, dalla base al vertice. Questo vale anche per le esigenze del paziente: se non riceve cure efficaci o ha difficoltà ad accedere alle strutture sanitarie, apprezzerà poco o per niente eventuali servizi di supporto o attività ricreative. Per riprendere un esempio che avevo fatto nella precedente edizione, ai pazienti non importa nulla delle opere d'arte esposte in una sala d'attesa, se le sedie su cui devono aspettare sono scomode.
Chi deve soddisfare queste esigenze? Generalmente quelle di base (cura e struttura) sono di competenza quasi esclusiva del servizio sanitario, mentre quelle di vertice (supporto e ausili) sono più spesso nel campo di attività delle associazioni di volontariato. Gli elementi intermedi che ho definito attenzione sono una zona di intersezione, in cui si sovrappongono mondo sanitario e volontariato. Non mancano poi i casi particolarmente virtuosi di strutture sanitarie che estendono le loro attività di assistenza fino al vertice della piramide, organizzando servizi e iniziative di carattere non strettamente medico, come pure di associazioni di volontariato particolarmente ben strutturate che operano per fornire anche elementi di struttura e di cura.
Le modalità con cui il paziente fa sentire la propria voce si sono evolute nel tempo.
Fino a poche decine di anni fa, il medico era considerato quasi una divinità, il detentore di un sapere misterioso rispetto a cui il paziente aveva un atteggiamento di rispetto e soggezione; in questo contesto relazionale, la comunicazione era a senso unico: il medico parlava e il paziente ascoltava, accettando passivamente qualsiasi informazione e indicazione gli venisse data.
Nell'era dell'informazione, il rapporto tra medico e paziente è cambiato. I pazienti oggi hanno mediamente un livello di istruzione più elevato e un accesso più facile a molteplici fonti di dati: pubblicazioni, informazioni provenienti da parenti e amici, veri o virtuali, maggiori possibilità di consulto con altri medici. E, soprattutto, quasi tutti i pazienti hanno a disposizione il medico più famoso del mondo: il dottor Google.
La disponibilità di una enorme quantità di informazioni mediche, purtroppo non sempre attendibili, ha ridotto lo squilibrio nel rapporto tra medico e paziente, creando per il malato maggiori occasioni per far sentire la propria voce. Aumenta quindi l'utilizzo dei canali di comunicazione istituzionali: colloqui con il personale sanitario, reclami, questionari e interviste, associazioni di pazienti che si fanno portavoce di istanze comuni.
Non si è tuttavia raggiunto un piano di parità, perché la condizione di malattia, e di malattia oncologica in particolare, pone comunque il paziente in una posizione di debolezza, per cui il medico nella relazione rimane dominante, sia pure in misura inferiore rispetto al passato. Talvolta il paziente non ha il coraggio di far sentire la propria voce, non tanto per soggezione nei confronti dei sanitari, quanto per il timore di essere trattato con minore riguardo se esprime critiche o proteste.
Esistono però anche numerosi canali di comunicazione informale. Il paziente parla con altri pazienti, con i familiari e gli amici, e un numero sempre crescente pubblica le proprie esperienze su blog, forum e social network.
Ci sono quindi tante fonti da cui si può raccogliere la voce del paziente, ma bisogna ricordare che ci sono anche tanti pazienti troppo spaventati, deboli o sofferenti per farsi sentire. Al corso di primo soccorso, mi hanno insegnato che spesso il ferito più grave, quello di cui bisogna occuparsi con maggiore urgenza, non è quello che urla a pieni polmoni, ma quello che tace perché non ha più nemmeno il fiato per gridare.
Bisogna ascoltare sempre le voci dei pazienti. Ma bisogna anche ascoltare i loro silenzi, perché a volte urlano molto più forte.
Come ogni altro contenuto di questo blog, l'immagine della piramide è pubblicata sotto licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 2.5 Italia License, cioè può essere liberamente utilizzata e diffusa purché:
1. non venga modificata rispetto all'originale
2. vengano sempre citati l'autore (io) e la fonte (questo blog)
3. non sia utilizzata per scopi commerciali
Contaci non è un congresso medico, ma una fucina di idee, un luogo di incontro per chi vuole migliorare l'oncologia offrendo ai pazienti un'attenzione che va oltre le terapie.
Pazienti, oncologi, infermieri, psicologi, volontari e altre figure che operano in ambito oncologico hanno avuto l'opportunità di confrontarsi e di condividere esperienze e buone pratiche. Tanti bellissimi progetti, tante buone idee: se ogni reparto di oncologia ne attuasse anche solo qualcuna, per migliaia di pazienti il cammino attraverso il cancro sarebbe molto più facile.
Contaci è in un certo senso un'isola felice, perché vi partecipano soprattutto persone "illuminate", che hanno voglia di ascoltare e sono disponibili a mettersi in discussione, mentre quelli che avrebbero più bisogno di cambiare i propri atteggiamenti probabilmente si guardano bene dal farsi coinvolgere. Ma è un modo per diffondere i semi di una nuova cultura sanitaria, che sa andare oltre gli aspetti strettamente clinici per estendere il concetto di salute oltre l'ambito fisico di "assenza di malattia", fino a comprendere il benessere psichico e sociale.
Ci sono stati diversi interventi interessanti, ma sarebbe troppo lungo richiamarli tutti. Cito soltanto alcuni aspetti che mi hanno colpito in modo particolare:
- L'instancabile impegno di Mario Clerico per una migliore oncologia: averne, di medici come lui!
- I principi della Slow Medicine spiegati da Giorgio Bert: sobrietà, rispetto e giustizia, e il concetto di appropriatezza clinica di cui si trova una descrizione qui.
- La bellissima precisazione della dottoressa Maria Grazia Fiori, medico di medicina generale, quando ha detto "Il malato... No. La persona malata."
- L'esercizio che abbiamo fatto nel laboratorio di medicina narrativa con Vincenzo Alastra: scrivere la nostra biografia, personale o professionale, in sei parole, sul modello del progetto "Six words memoirs". Le mie due biografie, personale e professionale, sono state "Ho attraversato molte volte il buio" e "Sono ingegnere elettronico, ma non professo".
- L'entusiasmo contagioso della dottoressa Brunello, che ha presentato due bellissimi progetti di ambulatori multidisciplinari dello IOV di Padova: sono particolarmente contenta che ci siano iniziative di eccellenza nella mia Regione.
- Due persone che avevo conosciuto quattro anni fa e che ho ritrovato con grandissimo piacere: Paola con il suo sorriso dolcissimo e Damaris con la sua straordinaria energia.
- Il caro ricordo di Aldo Sardoni, con cui avevo condiviso la partecipazione come paziente alla precedente edizione; purtroppo non è più con noi, ma ha lasciato tanto per tanti pazienti oncologici.
Come influenzare le politiche sanitarie? Come far sentire le nostre esigenze? Belle domande. Magari avessi le risposte!
Sicuramente i pazienti vorrebbero servizi sanitari efficaci, accessibili, personalizzati e anche efficienti, dal momento che li pagano, direttamente o indirettamente, con ticket, onorari e tasse. È l'idea della sanità come azienda e secondo me sarebbe una buona idea, se venisse attuata fino in fondo.
Guardando molte decisioni che vengono adottare in ambito sanitario, mi viene il dubbio che chi le compie non sappia nulla di gestione aziendale. O che ne sappia anche troppo e faccia in modo di volgerlo a proprio vantaggio anziché della collettività. Non si spiega altrimenti perché il concetto di "gestione aziendale" venga così spesso banalmente identificato con quello di "taglio dei costi".
Ridurre i costi è sicuramente importante e utile, se fatto con criterio per eliminare gli sprechi, che in sanità sono davvero tanti. Quando invece viene fatto in modo scriteriato, riducendo la qualità dei servizi per mantenere inutili sovrastrutture a scopo puramente clientelare, è soltanto dannoso e non ha nulla a che vedere con la gestione aziendale, di cui la riduzione dei costi è solo una parte.
Per avere successo, un'azienda deve raggiungere obiettivi di efficacia, migliorare la produttività e l'efficienza, cioè la capacità di utilizzare al meglio le risorse disponibili. Ma soprattutto, per rimanere con successo sul mercato, qualunque azienda deve essere capace di soddisfare le esigenze del cliente.
L'essenza della gestione aziendale non è il taglio dei costi, ma l'attenzione verso il cliente e la capacità di finalizzare tutte le energie e le attività alla sua soddisfazione.
Per soddisfare il paziente oncologico, bisogna conoscere le sue esigenze. Quali sono?
Per dare una risposta, mi sono ispirata alla piramide dei bisogni di Maslow, creandone una mia variante personalizzata.
Il principio di base della teoria di Maslow è che i bisogni devono essere soddisfatti in ordine, dalla base al vertice. Questo vale anche per le esigenze del paziente: se non riceve cure efficaci o ha difficoltà ad accedere alle strutture sanitarie, apprezzerà poco o per niente eventuali servizi di supporto o attività ricreative. Per riprendere un esempio che avevo fatto nella precedente edizione, ai pazienti non importa nulla delle opere d'arte esposte in una sala d'attesa, se le sedie su cui devono aspettare sono scomode.
Chi deve soddisfare queste esigenze? Generalmente quelle di base (cura e struttura) sono di competenza quasi esclusiva del servizio sanitario, mentre quelle di vertice (supporto e ausili) sono più spesso nel campo di attività delle associazioni di volontariato. Gli elementi intermedi che ho definito attenzione sono una zona di intersezione, in cui si sovrappongono mondo sanitario e volontariato. Non mancano poi i casi particolarmente virtuosi di strutture sanitarie che estendono le loro attività di assistenza fino al vertice della piramide, organizzando servizi e iniziative di carattere non strettamente medico, come pure di associazioni di volontariato particolarmente ben strutturate che operano per fornire anche elementi di struttura e di cura.
Le modalità con cui il paziente fa sentire la propria voce si sono evolute nel tempo.
Fino a poche decine di anni fa, il medico era considerato quasi una divinità, il detentore di un sapere misterioso rispetto a cui il paziente aveva un atteggiamento di rispetto e soggezione; in questo contesto relazionale, la comunicazione era a senso unico: il medico parlava e il paziente ascoltava, accettando passivamente qualsiasi informazione e indicazione gli venisse data.
Nell'era dell'informazione, il rapporto tra medico e paziente è cambiato. I pazienti oggi hanno mediamente un livello di istruzione più elevato e un accesso più facile a molteplici fonti di dati: pubblicazioni, informazioni provenienti da parenti e amici, veri o virtuali, maggiori possibilità di consulto con altri medici. E, soprattutto, quasi tutti i pazienti hanno a disposizione il medico più famoso del mondo: il dottor Google.
La disponibilità di una enorme quantità di informazioni mediche, purtroppo non sempre attendibili, ha ridotto lo squilibrio nel rapporto tra medico e paziente, creando per il malato maggiori occasioni per far sentire la propria voce. Aumenta quindi l'utilizzo dei canali di comunicazione istituzionali: colloqui con il personale sanitario, reclami, questionari e interviste, associazioni di pazienti che si fanno portavoce di istanze comuni.
Non si è tuttavia raggiunto un piano di parità, perché la condizione di malattia, e di malattia oncologica in particolare, pone comunque il paziente in una posizione di debolezza, per cui il medico nella relazione rimane dominante, sia pure in misura inferiore rispetto al passato. Talvolta il paziente non ha il coraggio di far sentire la propria voce, non tanto per soggezione nei confronti dei sanitari, quanto per il timore di essere trattato con minore riguardo se esprime critiche o proteste.
Esistono però anche numerosi canali di comunicazione informale. Il paziente parla con altri pazienti, con i familiari e gli amici, e un numero sempre crescente pubblica le proprie esperienze su blog, forum e social network.
Ci sono quindi tante fonti da cui si può raccogliere la voce del paziente, ma bisogna ricordare che ci sono anche tanti pazienti troppo spaventati, deboli o sofferenti per farsi sentire. Al corso di primo soccorso, mi hanno insegnato che spesso il ferito più grave, quello di cui bisogna occuparsi con maggiore urgenza, non è quello che urla a pieni polmoni, ma quello che tace perché non ha più nemmeno il fiato per gridare.
Bisogna ascoltare sempre le voci dei pazienti. Ma bisogna anche ascoltare i loro silenzi, perché a volte urlano molto più forte.
Come ogni altro contenuto di questo blog, l'immagine della piramide è pubblicata sotto licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 2.5 Italia License, cioè può essere liberamente utilizzata e diffusa purché:
1. non venga modificata rispetto all'originale
2. vengano sempre citati l'autore (io) e la fonte (questo blog)
3. non sia utilizzata per scopi commerciali
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mercoledì 16 settembre 2015
Io ci provo
Talvolta il cambiamento è salutare.
Non fa bene fossilizzarsi nelle proprie abitudini, sprofondare troppo a lungo nel trantran: se il cervello non è stimolato, si addormenta. Al contrario, i nuovi stimoli mantengono la mente elastica e reattiva.
Chi si ferma è perduto, soprattutto in ambito lavorativo, e i liberi professionisti lo sanno bene. Bisogna continuamente tenersi aggiornati, restare al passo con l'evoluzione del proprio settore professionale, possibilmente anche estendere le proprie competenze in nuovi ambiti, altrimenti si rischia di essere tagliati fuori dal mercato.
Per una felice combinazione di professionalità e fortuna, in oltre sedici anni di attività da libero professionista sono sempre riuscita a mantenere una buona continuità lavorativa proprio grazie al cambiamento: nuovi incarichi quando i precedenti si concludevano, nuove tipologie di servizio da offrire ai clienti.
Ora mi è stata offerta l'opportunità di un grande cambiamento: tornare a lavorare come dipendente, sia pure part-time, in un settore per me completamente nuovo. Una sfida stimolante e una possibilità di crescita professionale, ma anche un salto nel buio.
Sarò capace di svolgere i compiti richiesti?
Sarò all'altezza delle aspettative del nuovo datore di lavoro? E soprattutto delle mie aspettative, dato che sono un datore di lavoro severissimo con me stessa?
Ce la farò a mantenere adeguati livelli di prestazione nell'attività professionale?
Sarò in grado di sostenere, fisicamente e mentalmente, un significativo aumento del carico di lavoro?
Riuscirò a riadattarmi ai ritmi poco flessibili del lavoro dipendente?
Potrò coltivare ancora i miei interessi extra lavorativi?
Spero di sì.
Dovrò cambiare ritmo, rinunciare a qualcosa, organizzarmi in modo efficiente, dire qualche "no".
Io ci provo.
Non fa bene fossilizzarsi nelle proprie abitudini, sprofondare troppo a lungo nel trantran: se il cervello non è stimolato, si addormenta. Al contrario, i nuovi stimoli mantengono la mente elastica e reattiva.
Chi si ferma è perduto, soprattutto in ambito lavorativo, e i liberi professionisti lo sanno bene. Bisogna continuamente tenersi aggiornati, restare al passo con l'evoluzione del proprio settore professionale, possibilmente anche estendere le proprie competenze in nuovi ambiti, altrimenti si rischia di essere tagliati fuori dal mercato.
Per una felice combinazione di professionalità e fortuna, in oltre sedici anni di attività da libero professionista sono sempre riuscita a mantenere una buona continuità lavorativa proprio grazie al cambiamento: nuovi incarichi quando i precedenti si concludevano, nuove tipologie di servizio da offrire ai clienti.
Ora mi è stata offerta l'opportunità di un grande cambiamento: tornare a lavorare come dipendente, sia pure part-time, in un settore per me completamente nuovo. Una sfida stimolante e una possibilità di crescita professionale, ma anche un salto nel buio.
Sarò capace di svolgere i compiti richiesti?
Sarò all'altezza delle aspettative del nuovo datore di lavoro? E soprattutto delle mie aspettative, dato che sono un datore di lavoro severissimo con me stessa?
Ce la farò a mantenere adeguati livelli di prestazione nell'attività professionale?
Sarò in grado di sostenere, fisicamente e mentalmente, un significativo aumento del carico di lavoro?
Riuscirò a riadattarmi ai ritmi poco flessibili del lavoro dipendente?
Potrò coltivare ancora i miei interessi extra lavorativi?
Spero di sì.
Dovrò cambiare ritmo, rinunciare a qualcosa, organizzarmi in modo efficiente, dire qualche "no".
Io ci provo.
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lunedì 14 settembre 2015
Oggetti misteriosi
Sabato pomeriggio.
Dopo avere affrontato di malavoglia le pulizie del mattino e la spesa dell'ora di pranzo (per trovare meno coda alle casse del supermercato), ho affrontato con altrettanto entusiasmo la pulizia interna dell'auto.
Non sono una maniaca dell'automobile: è semplicemente un oggetto che serve a trasportare persone e cose e un costante generatore di spese, dal momento dell'acquisto fino alla vendita o rottamazione. Non mi sfiora nemmeno l'idea di portarla all'autolavaggio più di quattro volte l'anno, ancor meno quella di dedicarmi alla pulizia interna con maggiore frequenza. Ma quando sui tappetini si iniziano a raccogliere ossa di dinosauro e fossili del Cretaceo, è ora di armarsi e partire: aspirapolvere, panno e detergente per vetri, panno e spray per superfici.
Parabrezza, cruscotto, volante, cambio, vano piedi conducente, sedile conducente, vano piedi passeggero, sedile passeggero, vano piedi posterio... Cosa sono queste schegge bianche?
Sembrano... pezzi di... unghie!
Ma io non mi sono mai tagliata le unghie in macchina. E non mi mangio le unghie.
Cosa ci fanno delle unghie nella mia macch... GAAANDAALF!!!
Dopo avere affrontato di malavoglia le pulizie del mattino e la spesa dell'ora di pranzo (per trovare meno coda alle casse del supermercato), ho affrontato con altrettanto entusiasmo la pulizia interna dell'auto.
Non sono una maniaca dell'automobile: è semplicemente un oggetto che serve a trasportare persone e cose e un costante generatore di spese, dal momento dell'acquisto fino alla vendita o rottamazione. Non mi sfiora nemmeno l'idea di portarla all'autolavaggio più di quattro volte l'anno, ancor meno quella di dedicarmi alla pulizia interna con maggiore frequenza. Ma quando sui tappetini si iniziano a raccogliere ossa di dinosauro e fossili del Cretaceo, è ora di armarsi e partire: aspirapolvere, panno e detergente per vetri, panno e spray per superfici.
Parabrezza, cruscotto, volante, cambio, vano piedi conducente, sedile conducente, vano piedi passeggero, sedile passeggero, vano piedi posterio... Cosa sono queste schegge bianche?
Sembrano... pezzi di... unghie!
Ma io non mi sono mai tagliata le unghie in macchina. E non mi mangio le unghie.
Cosa ci fanno delle unghie nella mia macch... GAAANDAALF!!!
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sabato 5 settembre 2015
Perché io?
Perché io?
È una domanda che probabilmente ogni paziente oncologico si è posto almeno una volta e che può avere più di un significato.
Il primo, il più immediato, il più comune è Perché mi è successa questa cosa orribile?
Questa domanda dà il via a una sorta di autoanalisi per cercare di capire. Forse nella tua famiglia c'è qualche familiarità per le patologie oncologiche, o forse no. Ti chiedi comunque dove hai sbagliato, magari sulla scia di qualche teoria più o meno scientifica sulle cause del cancro, che ti porta a mettere in discussione tutto quello che fai, mangi, bevi, respiri, pensi. Robe che se non ti uccide il cancro, lo fanno l'ansia e il senso di colpa.
C'è anche una seconda sfumatura: Perché proprio io e non qualcun altro?
Ti guardi intorno e vedi quello che fuma cinquanta sigarette al giorno, il forte bevitore, il divoratore di cibo spazzatura... Qualche volta fa capolino anche il pensiero, politicamente scorretto, che ci sono tanti bastardi di cui il mondo farebbe volentieri a meno, ma loro non hanno avuto il cancro e tu invece sì. Ma chi sei tu per decidere chi merita una buona salute e chi no?
Quando trascorre un po' di tempo dalla diagnosi, cosa decisamente auspicabile, accade che per qualche compagno di (dis)avventura il viaggio finisca tragicamente, mentre tu prosegui il tuo. Allora può scattare la domanda da sindrome del sopravvissuto: Perché io sono ancora qui mentre lui/lei non ce l'ha fatta? Come se dovessi vergognarti di essere vivo. Non è una bella cosa e soprattutto non serve a riportarli indietro.
Al contrario, può succedere che il tuo percorso oncologico si riveli particolarmente accidentato: effetti collaterali pesanti, malattia resistente alle terapie, recidive... Mentre invece qualche altro paziente supera con relativa facilità il periodo delle cure e arriva felicemente a completare il follow-up senza ulteriori complicazioni. Perché io devo ancora combattere mentre lui/lei è già guarito? L'invidia è una brutta bestia...
Perché io?
Ho fatto i conti anch'io con questa domanda, in tutte le sue sfumature. Ma li ho chiusi sempre velocemente, perché sono inutili: non servono a stare meglio, anzi, se ci si dedica troppa attenzione diventano fonte di stress.
Perché mi è successo? Non lo so. Ma probabilmente è stata solo sfiga.
Perché proprio a me? Non lo so. Ma perché no?
Perché io sono ancora qui mentre Anna, Anna Lisa, Lara, Gabriele, Alessio e tanti altri non ci sono più? Non lo so. Ma mi mancano tanto
Perché a distanza di dieci anni dal primo insorgere della malattia sono ancora alle prese con controlli bimestrali? Non lo so. Ma l'importante è esserci e poter gioire dei piccoli e grandi traguardi raggiunti, peraltro non senza difficoltà, dalle persone che mi sono care. Come Romina, che tra poco festeggia dieci anni, ma quel post di due anni fa è così meraviglioso che vale sempre la pena di rivederlo. Oppure gli undici anni di Rosie, i cinque di Mamigà, i sette Claudia e tanti altri.
Perché io? Boh. Non lo so. Non importa.
È una domanda che probabilmente ogni paziente oncologico si è posto almeno una volta e che può avere più di un significato.
Il primo, il più immediato, il più comune è Perché mi è successa questa cosa orribile?
Questa domanda dà il via a una sorta di autoanalisi per cercare di capire. Forse nella tua famiglia c'è qualche familiarità per le patologie oncologiche, o forse no. Ti chiedi comunque dove hai sbagliato, magari sulla scia di qualche teoria più o meno scientifica sulle cause del cancro, che ti porta a mettere in discussione tutto quello che fai, mangi, bevi, respiri, pensi. Robe che se non ti uccide il cancro, lo fanno l'ansia e il senso di colpa.
C'è anche una seconda sfumatura: Perché proprio io e non qualcun altro?
Ti guardi intorno e vedi quello che fuma cinquanta sigarette al giorno, il forte bevitore, il divoratore di cibo spazzatura... Qualche volta fa capolino anche il pensiero, politicamente scorretto, che ci sono tanti bastardi di cui il mondo farebbe volentieri a meno, ma loro non hanno avuto il cancro e tu invece sì. Ma chi sei tu per decidere chi merita una buona salute e chi no?
Quando trascorre un po' di tempo dalla diagnosi, cosa decisamente auspicabile, accade che per qualche compagno di (dis)avventura il viaggio finisca tragicamente, mentre tu prosegui il tuo. Allora può scattare la domanda da sindrome del sopravvissuto: Perché io sono ancora qui mentre lui/lei non ce l'ha fatta? Come se dovessi vergognarti di essere vivo. Non è una bella cosa e soprattutto non serve a riportarli indietro.
Al contrario, può succedere che il tuo percorso oncologico si riveli particolarmente accidentato: effetti collaterali pesanti, malattia resistente alle terapie, recidive... Mentre invece qualche altro paziente supera con relativa facilità il periodo delle cure e arriva felicemente a completare il follow-up senza ulteriori complicazioni. Perché io devo ancora combattere mentre lui/lei è già guarito? L'invidia è una brutta bestia...
Perché io?
Ho fatto i conti anch'io con questa domanda, in tutte le sue sfumature. Ma li ho chiusi sempre velocemente, perché sono inutili: non servono a stare meglio, anzi, se ci si dedica troppa attenzione diventano fonte di stress.
Perché mi è successo? Non lo so. Ma probabilmente è stata solo sfiga.
Perché proprio a me? Non lo so. Ma perché no?
Perché io sono ancora qui mentre Anna, Anna Lisa, Lara, Gabriele, Alessio e tanti altri non ci sono più? Non lo so. Ma mi mancano tanto
Perché a distanza di dieci anni dal primo insorgere della malattia sono ancora alle prese con controlli bimestrali? Non lo so. Ma l'importante è esserci e poter gioire dei piccoli e grandi traguardi raggiunti, peraltro non senza difficoltà, dalle persone che mi sono care. Come Romina, che tra poco festeggia dieci anni, ma quel post di due anni fa è così meraviglioso che vale sempre la pena di rivederlo. Oppure gli undici anni di Rosie, i cinque di Mamigà, i sette Claudia e tanti altri.
Perché io? Boh. Non lo so. Non importa.
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riflessioni (quasi) serie
venerdì 4 settembre 2015
Grandi manovre
Le ferie domestiche di quest'anno hanno risvegliato il mio spirito casalingo, che solitamente è in uno stato di profondo letargo o di quasi-coma.
Nel fine settimana scorso - udite, udite! - abbiamo messo le tende in cucina. Non sostituite, no: le abbiamo montate per la prima volta dal quando sono venuta ad abitare in questa casa, nel lontano 2002, privando gli abitanti della via del dubbio piacere di ammirarci mentre siamo a tavola. Così se prima in casa ci mettevamo abiti comodi, ma pur sempre decenti, adesso che la nostra privacy è più protetta siamo allo svacco totale.
Il repulisti della cucina si è concluso ieri, quando ho approfittato di mezza giornata di libertà dal lavoro per svuotare, pulire e riorganizzare la dispensa, eliminando cose inenarrabili, come un vasetto di marmellata scaduto nel 2011 che era misteriosamente sopravvissuto alle precedenti cernite (NdA: non regalatemi marmellata!). Alla fine ho recuperato talmente tanto spazio che Renato ha chiesto se erano passati i ladri.
Ma il sacro fuoco non si era ancora spento.
Una spedizione inizialmente finalizzata all'acquisto di un nuovo telecomando per la TV e al ripristino delle scorte di croccantini per i gatti, ha fruttato anche - inaspettatamente - il lampadario per la cameretta. Come sopra, non un nuovo lampadario, ma il primo lampadario per quella stanza, che fino a oggi si era accontentata di una nuda lampadina. Come peraltro lo studio, il vano scale, il corridoio delle camere, due bagni su tre, la lavanderia e il garage.. Perché quello non mi piace, quell'altro è un ricettacolo di polvere, l'altro ancora scherma troppo la lampada rubando luce... Insomma, ci ho messo 12 anni per trovare qualcosa che mi soddisfacesse a un prezzo ragionevole. E alla fine non sono andata molto lontano da quello che c'era già, a parte le dimensioni.
Oggi pomeriggio, quando Renato è tornato dal lavoro, ci siamo dedicati all'installazione. Apparentemente nulla di complicato: due tasselli da fissare al soffitto, tre fili da collegare, qualche vite da stringere.
Ma se becco quello che ha progettato questo lampadario, glielo faccio smontare e rimontare davanti ai miei occhi e rimane lì finché non ci riesce o - più probabilmente - muore nel tentativo.
Già, perché il cilindro di collegamento al soffitto è minuscolo e bisogna:
Se non fossimo due personcine ammodo, avremmo tirato giù tutti i santi del calendario, da Abele a Zaccaria.
Nel fine settimana scorso - udite, udite! - abbiamo messo le tende in cucina. Non sostituite, no: le abbiamo montate per la prima volta dal quando sono venuta ad abitare in questa casa, nel lontano 2002, privando gli abitanti della via del dubbio piacere di ammirarci mentre siamo a tavola. Così se prima in casa ci mettevamo abiti comodi, ma pur sempre decenti, adesso che la nostra privacy è più protetta siamo allo svacco totale.
Il repulisti della cucina si è concluso ieri, quando ho approfittato di mezza giornata di libertà dal lavoro per svuotare, pulire e riorganizzare la dispensa, eliminando cose inenarrabili, come un vasetto di marmellata scaduto nel 2011 che era misteriosamente sopravvissuto alle precedenti cernite (NdA: non regalatemi marmellata!). Alla fine ho recuperato talmente tanto spazio che Renato ha chiesto se erano passati i ladri.
Ma il sacro fuoco non si era ancora spento.
Una spedizione inizialmente finalizzata all'acquisto di un nuovo telecomando per la TV e al ripristino delle scorte di croccantini per i gatti, ha fruttato anche - inaspettatamente - il lampadario per la cameretta. Come sopra, non un nuovo lampadario, ma il primo lampadario per quella stanza, che fino a oggi si era accontentata di una nuda lampadina. Come peraltro lo studio, il vano scale, il corridoio delle camere, due bagni su tre, la lavanderia e il garage.. Perché quello non mi piace, quell'altro è un ricettacolo di polvere, l'altro ancora scherma troppo la lampada rubando luce... Insomma, ci ho messo 12 anni per trovare qualcosa che mi soddisfacesse a un prezzo ragionevole. E alla fine non sono andata molto lontano da quello che c'era già, a parte le dimensioni.
Oggi pomeriggio, quando Renato è tornato dal lavoro, ci siamo dedicati all'installazione. Apparentemente nulla di complicato: due tasselli da fissare al soffitto, tre fili da collegare, qualche vite da stringere.
Ma se becco quello che ha progettato questo lampadario, glielo faccio smontare e rimontare davanti ai miei occhi e rimane lì finché non ci riesce o - più probabilmente - muore nel tentativo.
Già, perché il cilindro di collegamento al soffitto è minuscolo e bisogna:
- Farci entrare i cavi elettrici, il fil di ferro per l'aggancio a soffitto, la scatola dei connettori e gli occhielli dei cavi da sospensione; praticamente è come infilare cinque elefanti in una Yaris: una cosa possibile in teoria, 2 davanti e 3 dietro, ma provateci e poi ne parliamo.
- Inserire e avvitare le viti di bloccaggio in uno spazio di un paio di centimetri tra il soffitto e la piastra circolare di base, senza nessuna possibilità di pre-avvitarle perché il foro esterno è troppo largo, tenendo ferma la struttura con una mano (con i cinque elefanti dentro che lottano per uscire) mentre con l'altra si impugna il cacciavite e con l'altra si inserisce la vite. Ah, dite che avete solo due mani? Anch'io.
Se non fossimo due personcine ammodo, avremmo tirato giù tutti i santi del calendario, da Abele a Zaccaria.
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sabato 29 agosto 2015
Ecocronaca
Giovedì era giorno di controlli.
La notte precedente ho dormito come... uhm... non so... c'è qualche animale - oltre a me - che dorme tanto e saporitamente, però deve alzarsi più o meno ogni due ore per svuotare la vescica?
Comunque, dopo una notte di buon sonno nonostante le frequenti interruzioni, mi sono alzata con tutta calma poco dopo le nove, non ho fatto colazione perché l'eco addome si fa a digiuno e ho ciondolato un po' per casa fino all'ora di partire per Aviano.
Avevo gentilmente respinto l'offerta di Renato di accompagnarmi ("è solo un'ecografia, conserva ferie e permessi per quando servono davvero"), quindi mi sono messa in macchina con la sola compagnia della radio... o almeno così credevo.
La prima parte del viaggio è stata un incubo.
Se avete mai viaggiato in auto con una zanzara tigre, sapete di cosa sto parlando. La maledetta si era intrufolata a tradimento e continuava a cercare di pungermi. Con un certo successo, peraltro.
Dopo parecchi chilometri e un paio di punture, sono finalmente riuscita a far sloggiare l'intrusa e ho fatto un po' di autoanalisi per capire come mi sentivo. A parte il prurito, ovviamente.
Sarebbe stato ragionevole trovare una certa dose di preoccupazione, se non addirittura ansia. Invece no: per quanto a fondo sia riuscita a scavare, l'unica emozione di rilievo che ho trovato è stata una buona dose di curiosità. Guardavo ai tanti possibili esiti di quel controllo, chiedendomi con un certo distacco quale si sarebbe concretizzato.
Le cose sono peggiorate progressivamente avvicinandomi al CRO, fino a raggiungere una situazione di forte disagio mentre aspettavo il mio turno in sala d'attesa. Dopo aver letto qualche capitolo sul nuovo e-reader - regalo di Renato dopo che il precedente si è misteriosamente rotto - ho iniziato ad agitarmi nervosamente sul divanetto scomodo.
Aperta parentesi. Sarebbe carino se qualcuno riflettesse un poco prima di mettere nella sala d'attesa di una struttura sanitaria poltroncine e divanetti così bassi che richiedono un certo sforzo per sedersi o rialzarsi anche a persone in buona salute. Chiusa parentesi.
Guardavo continuamente l'orologio, mentre i minuti di ritardo rispetto all'orario dell'appuntamento si accumulavano e, dopo quasi mezz'ora, ormai avevo un unico pensiero: non vedo l'ora che finisca.
Ansia da controllo? Macché.
È che l'ecografia addominale va fatta a vescica piena e io avevo un bisogno sempre più urgente di andare in bagno!
Il mio oncologo mi aveva preso appuntamento con un bravo ecografista, lo stesso che qualche anno fa mi aveva aspirato la palla. Ha esaminato la mia pancia in lungo e in largo, facendomi anche girare su un fianco per controllare meglio alcuni punti. Era perplesso: "A me non sembra un lipoma."
In realtà intendeva dire che secondo lui la nuova palla non ha alcuna caratteristica tumorale, nemmeno benigna: può essere semplicemente grasso addominale. Un'ipotesi così favorevole che non l'avevo nemmeno messa in conto tra i risultati possibili.
Appena uscita dall'ambulatorio mi sono fiondata alla toilette, molto opportunamente piazzata proprio di fronte - poi ho atteso per qualche minuto il referto e sono uscita molto sollevata. In tutti i sensi.
Nel corridoio di fronte all'ingresso del reparto sono stata intercettata da una sconosciuta: "Signora!"
Mi sono voltata a guardarla con aria interrogativa.
"Volevo solo dirle che lei scrive benissimo. E legge anche benissimo."
Credo che il mio viso abbia virato verso il colore del pomodoro maturo, mentre la signora rincarava la dose, spiegando alle persone che erano con lei che "Ha anche vinto un premio, sapete?".
L'ho ringraziata di cuore, mi ha fatto davvero tanto piacere. Ma che imbarazzo!
Sono andata direttamente dall'oncologo, che mi aveva fissato la visita subito dopo l'ecografia.
Ha accolto con soddisfazione il referto dell'ecografista, mantenendo però la consueta attenzione verso la palla vecchia, il linfocele, per il quale mi è sempre sembrato un po' preoccupato e ora, con le formiche, i dolori all'inguine e la zampazampogna, anche di più.
Ha deciso quindi di mantenere un controllo stretto, con una TAC a inizio ottobre.
E adesso mi godo un mese e mezzo di libera uscita.
La notte precedente ho dormito come... uhm... non so... c'è qualche animale - oltre a me - che dorme tanto e saporitamente, però deve alzarsi più o meno ogni due ore per svuotare la vescica?
Comunque, dopo una notte di buon sonno nonostante le frequenti interruzioni, mi sono alzata con tutta calma poco dopo le nove, non ho fatto colazione perché l'eco addome si fa a digiuno e ho ciondolato un po' per casa fino all'ora di partire per Aviano.
Avevo gentilmente respinto l'offerta di Renato di accompagnarmi ("è solo un'ecografia, conserva ferie e permessi per quando servono davvero"), quindi mi sono messa in macchina con la sola compagnia della radio... o almeno così credevo.
La prima parte del viaggio è stata un incubo.
Se avete mai viaggiato in auto con una zanzara tigre, sapete di cosa sto parlando. La maledetta si era intrufolata a tradimento e continuava a cercare di pungermi. Con un certo successo, peraltro.
Dopo parecchi chilometri e un paio di punture, sono finalmente riuscita a far sloggiare l'intrusa e ho fatto un po' di autoanalisi per capire come mi sentivo. A parte il prurito, ovviamente.
Sarebbe stato ragionevole trovare una certa dose di preoccupazione, se non addirittura ansia. Invece no: per quanto a fondo sia riuscita a scavare, l'unica emozione di rilievo che ho trovato è stata una buona dose di curiosità. Guardavo ai tanti possibili esiti di quel controllo, chiedendomi con un certo distacco quale si sarebbe concretizzato.
Le cose sono peggiorate progressivamente avvicinandomi al CRO, fino a raggiungere una situazione di forte disagio mentre aspettavo il mio turno in sala d'attesa. Dopo aver letto qualche capitolo sul nuovo e-reader - regalo di Renato dopo che il precedente si è misteriosamente rotto - ho iniziato ad agitarmi nervosamente sul divanetto scomodo.
Aperta parentesi. Sarebbe carino se qualcuno riflettesse un poco prima di mettere nella sala d'attesa di una struttura sanitaria poltroncine e divanetti così bassi che richiedono un certo sforzo per sedersi o rialzarsi anche a persone in buona salute. Chiusa parentesi.
Guardavo continuamente l'orologio, mentre i minuti di ritardo rispetto all'orario dell'appuntamento si accumulavano e, dopo quasi mezz'ora, ormai avevo un unico pensiero: non vedo l'ora che finisca.
Ansia da controllo? Macché.
È che l'ecografia addominale va fatta a vescica piena e io avevo un bisogno sempre più urgente di andare in bagno!
Il mio oncologo mi aveva preso appuntamento con un bravo ecografista, lo stesso che qualche anno fa mi aveva aspirato la palla. Ha esaminato la mia pancia in lungo e in largo, facendomi anche girare su un fianco per controllare meglio alcuni punti. Era perplesso: "A me non sembra un lipoma."
In realtà intendeva dire che secondo lui la nuova palla non ha alcuna caratteristica tumorale, nemmeno benigna: può essere semplicemente grasso addominale. Un'ipotesi così favorevole che non l'avevo nemmeno messa in conto tra i risultati possibili.
Appena uscita dall'ambulatorio mi sono fiondata alla toilette, molto opportunamente piazzata proprio di fronte - poi ho atteso per qualche minuto il referto e sono uscita molto sollevata. In tutti i sensi.
Nel corridoio di fronte all'ingresso del reparto sono stata intercettata da una sconosciuta: "Signora!"
Mi sono voltata a guardarla con aria interrogativa.
"Volevo solo dirle che lei scrive benissimo. E legge anche benissimo."
Credo che il mio viso abbia virato verso il colore del pomodoro maturo, mentre la signora rincarava la dose, spiegando alle persone che erano con lei che "Ha anche vinto un premio, sapete?".
L'ho ringraziata di cuore, mi ha fatto davvero tanto piacere. Ma che imbarazzo!
Sono andata direttamente dall'oncologo, che mi aveva fissato la visita subito dopo l'ecografia.
Ha accolto con soddisfazione il referto dell'ecografista, mantenendo però la consueta attenzione verso la palla vecchia, il linfocele, per il quale mi è sempre sembrato un po' preoccupato e ora, con le formiche, i dolori all'inguine e la zampazampogna, anche di più.
Ha deciso quindi di mantenere un controllo stretto, con una TAC a inizio ottobre.
E adesso mi godo un mese e mezzo di libera uscita.
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venerdì 21 agosto 2015
Ci penserò dopo
Parlo poco della seconda palla.
A chi mi chiede notizie rispondo con le le poche informazioni che ho, ma non entro per prima in argomento e non ne ho parlato molto nemmeno sul blog.
Sindrome dello struzzo?
Tentativo di ignorare il problema nascondendo la testa sotto la sabbia?
No.
Sono perfettamente consapevole della seconda palla. Potrei chiudere un occhio sui doloretti occasionali all'addome e sulle frequenti passeggiate delle formiche del prosciutto, ma sarebbe difficile ignorare i loro morsi brucianti all'inguine oppure la zampazampogna.
Non mi faccio troppe illusioni nemmeno sulle possibili conseguenze della presenza di quest'ospite indesiderato. So benissimo che, per quanto benigno, si tratta pur sempre di un tumore, parente stretto dei due precedenti e indice di una preoccupante tendenza delle mie cellule alle mutazioni. Mi rendo conto anche che potrebbe rendersi necessario un nuovo intervento chirurgico.
Semplicemente, ho deciso di non occuparmene fintantoché non c'è nulla che io possa fare.
Affronto i disagi quando si presentano - per fortuna non troppo spesso - cercando di risolvere un problema alla volta.
Queste giornate di ferie aiutano: restando a casa, ho la possibilità di tenere spesso la gamba sollevata per evitare che si gonfi e in caso di dolori posso interrompere quello che sto facendo e stendermi sul divano fino a quando passano. Mi dispiace solo di non essere riuscita a fare tutto quello che avrei voluto in queste due settimane: avevo progettato grandi pulizie di tutti gli armadi e i cassetti, per eliminare tutto ciò che non serve più, ma nella migliore delle ipotesi riuscirò a finire soltanto la cucina. Pazienza.
Giovedì prossimo ho l'ecografia e la visita con l'oncologo per valutare come procedere; fino ad allora è inutile sprecare troppe energie su questo argomento. Dedico solo qualche pensiero a quello che potrebbe succedere dopo; se sarà il caso, me ne preoccuperò, appunto, dopo.
A chi mi chiede notizie rispondo con le le poche informazioni che ho, ma non entro per prima in argomento e non ne ho parlato molto nemmeno sul blog.
Sindrome dello struzzo?
Tentativo di ignorare il problema nascondendo la testa sotto la sabbia?
No.
Sono perfettamente consapevole della seconda palla. Potrei chiudere un occhio sui doloretti occasionali all'addome e sulle frequenti passeggiate delle formiche del prosciutto, ma sarebbe difficile ignorare i loro morsi brucianti all'inguine oppure la zampazampogna.
Non mi faccio troppe illusioni nemmeno sulle possibili conseguenze della presenza di quest'ospite indesiderato. So benissimo che, per quanto benigno, si tratta pur sempre di un tumore, parente stretto dei due precedenti e indice di una preoccupante tendenza delle mie cellule alle mutazioni. Mi rendo conto anche che potrebbe rendersi necessario un nuovo intervento chirurgico.
Semplicemente, ho deciso di non occuparmene fintantoché non c'è nulla che io possa fare.
Affronto i disagi quando si presentano - per fortuna non troppo spesso - cercando di risolvere un problema alla volta.
Queste giornate di ferie aiutano: restando a casa, ho la possibilità di tenere spesso la gamba sollevata per evitare che si gonfi e in caso di dolori posso interrompere quello che sto facendo e stendermi sul divano fino a quando passano. Mi dispiace solo di non essere riuscita a fare tutto quello che avrei voluto in queste due settimane: avevo progettato grandi pulizie di tutti gli armadi e i cassetti, per eliminare tutto ciò che non serve più, ma nella migliore delle ipotesi riuscirò a finire soltanto la cucina. Pazienza.
Giovedì prossimo ho l'ecografia e la visita con l'oncologo per valutare come procedere; fino ad allora è inutile sprecare troppe energie su questo argomento. Dedico solo qualche pensiero a quello che potrebbe succedere dopo; se sarà il caso, me ne preoccuperò, appunto, dopo.
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mercoledì 19 agosto 2015
Fenomenologia della vampata
C'è quella del buongiorno, che riesce a rendere ancora più spiacevole la sveglia del mattino.
Quella della buonanotte, appena prima di addormentarsi... così non ti addormenti prima di altri dieci minuti.
C'è quella dispettosa, un minuto dopo che sei uscita dalla doccia.
Quella discreta, che quasi non te ne accorgi. Quasi.
C'è quella invernale, che fa sudare la schiena, il collo e la testa ma ti lascia i piedi congelati.
Quella estiva, che ti fa sudare e basta.
Quella da mezza stagione, togli-la-maglia-rimetti-la-maglia, che al confronto Karate Kid è un dilettante.
C'è quella lunga, che sembra non finire mai.
Quella socievole, che arriva sempre in compagnia.
E chissà, forse c'è anche quella solitaria, che non ne vuole altre intorno per almeno una settimana. Mi piacerebbe conoscerla.
Quella della buonanotte, appena prima di addormentarsi... così non ti addormenti prima di altri dieci minuti.
C'è quella inopportuna, che arriva in modo da creare il massimo imbarazzo possibile, tipicamente mentre stai parlando in pubblico o durante una riunione di lavoro.
Quella cattiva, che fa venire la nausea e girare la testa, mentre la pressione crolla e il cuore va a mille; e c'è da sperare che non arrivi mai mentre stai guidando, altrimenti diventa pure pericolosa.C'è quella dispettosa, un minuto dopo che sei uscita dalla doccia.
Quella discreta, che quasi non te ne accorgi. Quasi.
C'è quella invernale, che fa sudare la schiena, il collo e la testa ma ti lascia i piedi congelati.
Quella estiva, che ti fa sudare e basta.
Quella da mezza stagione, togli-la-maglia-rimetti-la-maglia, che al confronto Karate Kid è un dilettante.
C'è quella lunga, che sembra non finire mai.
Quella socievole, che arriva sempre in compagnia.
E chissà, forse c'è anche quella solitaria, che non ne vuole altre intorno per almeno una settimana. Mi piacerebbe conoscerla.
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ridiamoci su
sabato 15 agosto 2015
Strani risvegli
PROLOGO
Le 9:30 circa di una domenica mattina durante l'anno scolastico 1985-1986 (era giurassica, in cui i telefoni cellulari erano un lusso riservato a pochissimi)
A casa della nonna Ester suona il telefono.
Nonna Ester: "Pronto!"
M.: "Pronto, buongiorno, sono M. Posso parlare con Mia?"
Nonna Ester: "È una questione di vita o di morte?"
M. (piuttosto sorpresa): "Be'... no... non direi..."
Nonna Ester: "Allora richiama più tardi: sta ancora dormendo."
Questo episodio - realmente accaduto - evidenzia quanto bene mi conoscesse la nonna Ester, cosa non sorprendente, dato che ho vissuto con lei fino all'età di 25 anni.
La nonna sapeva benissimo che svegliarmi nell'unica mattina della settimana in cui avevo la possibilità di dormire fino a tardi avrebbe avuto conseguenze disastrose sul mio umore e, di conseguenza, sulla serenità di tutta la famiglia.
Sono passati quasi trent'anni e molte cose sono cambiate.
La nonna Ester non c'è più, se n'è andata improvvisamente una mattina di marzo del 1995, pochi mesi prima di compiere 91 anni.
La casa in cui sono cresciuta è stata venduta e ristrutturata al punto da essere completamente irriconoscibile: quella che prima era una grandissima e luminosa villa degli anni '50, le cui dimensioni erano alleggerite da numerose finestre e terrazze, ora è un cubo spoglio, soffocato da siepi e alberi altissimi.
Io sono diventata più vecchia, più grassa e più acida.
Però mi piace ancora dormire fino a tardi e mi infastidisce essere svegliata prima di quanto sia strettamente necessario.
Nei giorni lavorativi, quando la sveglia suona alle 7:15, mi consolo facendo il conto i giorni che mancano alla successiva mattina libera, rassegnandomi ad alzarmi grazie a frasi come "Coraggio: fra 3 giorni potrai dormire!"
Capirete quindi la mia disposizione d'animo non proprio benevola quando alle 7:45 del mattino di qualche giorno fa, nel pieno del mio periodo di ferie, sono stata svegliata dallo squillo lontano del telefono.
Non il cellulare, che spengo ogni sera prima di addormentarmi proprio per evitare questo genere di incidenti, ma il telefono fisso dello studio, dato che quello che tengo sul comodino della camera è stato opportunamente silenziato.
Ho aperto gli occhi, realizzato che no, non era un sogno, ma c'era davvero un telefono che squillava, ho tirato mentalmente un paio di maledizioni a chiunque ci fosse dall'altro capo del filo e poi finalmente ho sollevato la cornetta.
- Betty!
- Prego?
- Betty! No te son la Betty?
- No signora, non sono Betty, qui non c'è nessuna Betty, deve aver sbagliato numero.
- No go fato el numero giusto? Mi go ciamà el 347...
- No signora, quello è un numero di cellulare, lei ha chiamato un telefono fisso, un numero che inizia con 04...
- Ah. Alora che numero go da far per ciamar la Betty?
- Non saprei signora.
Le 9:30 circa di una domenica mattina durante l'anno scolastico 1985-1986 (era giurassica, in cui i telefoni cellulari erano un lusso riservato a pochissimi)
A casa della nonna Ester suona il telefono.
Nonna Ester: "Pronto!"
M.: "Pronto, buongiorno, sono M. Posso parlare con Mia?"
Nonna Ester: "È una questione di vita o di morte?"
M. (piuttosto sorpresa): "Be'... no... non direi..."
Nonna Ester: "Allora richiama più tardi: sta ancora dormendo."
Questo episodio - realmente accaduto - evidenzia quanto bene mi conoscesse la nonna Ester, cosa non sorprendente, dato che ho vissuto con lei fino all'età di 25 anni.
La nonna sapeva benissimo che svegliarmi nell'unica mattina della settimana in cui avevo la possibilità di dormire fino a tardi avrebbe avuto conseguenze disastrose sul mio umore e, di conseguenza, sulla serenità di tutta la famiglia.
Sono passati quasi trent'anni e molte cose sono cambiate.
La nonna Ester non c'è più, se n'è andata improvvisamente una mattina di marzo del 1995, pochi mesi prima di compiere 91 anni.
La casa in cui sono cresciuta è stata venduta e ristrutturata al punto da essere completamente irriconoscibile: quella che prima era una grandissima e luminosa villa degli anni '50, le cui dimensioni erano alleggerite da numerose finestre e terrazze, ora è un cubo spoglio, soffocato da siepi e alberi altissimi.
Io sono diventata più vecchia, più grassa e più acida.
Però mi piace ancora dormire fino a tardi e mi infastidisce essere svegliata prima di quanto sia strettamente necessario.
Nei giorni lavorativi, quando la sveglia suona alle 7:15, mi consolo facendo il conto i giorni che mancano alla successiva mattina libera, rassegnandomi ad alzarmi grazie a frasi come "Coraggio: fra 3 giorni potrai dormire!"
Capirete quindi la mia disposizione d'animo non proprio benevola quando alle 7:45 del mattino di qualche giorno fa, nel pieno del mio periodo di ferie, sono stata svegliata dallo squillo lontano del telefono.
Non il cellulare, che spengo ogni sera prima di addormentarmi proprio per evitare questo genere di incidenti, ma il telefono fisso dello studio, dato che quello che tengo sul comodino della camera è stato opportunamente silenziato.
(sì, questo è il telefono sul mio comodino; qualcosa in contrario?)
Ho aperto gli occhi, realizzato che no, non era un sogno, ma c'era davvero un telefono che squillava, ho tirato mentalmente un paio di maledizioni a chiunque ci fosse dall'altro capo del filo e poi finalmente ho sollevato la cornetta.
- Betty!
- Prego?
- Betty! No te son la Betty?
- No signora, non sono Betty, qui non c'è nessuna Betty, deve aver sbagliato numero.
- No go fato el numero giusto? Mi go ciamà el 347...
- No signora, quello è un numero di cellulare, lei ha chiamato un telefono fisso, un numero che inizia con 04...
- Ah. Alora che numero go da far per ciamar la Betty?
- Non saprei signora.
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venerdì 7 agosto 2015
Self-service
Quello che succede quando si rimuovono temporaneamente le ciotole dei croccantini per fare le pulizie.
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domenica 26 luglio 2015
Torna Contaci e io ci torno!
Quest'anno parteciperò insieme a Romina, Milva e Catia: porteremo le nostre esperienza di pazienti oncologiche.
Venite anche voi?
Potete anche proporre i vostri progetti destinati ai pazienti oncologici: i più interessanti saranno presentati nel corso dell'evento.
Tutti i dettagli sul sito.
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giovedì 23 luglio 2015
Se questo non è amore...
Caronte è al massimo del suo splendore: caldo torrido.
Mio fratello si rifugia nelle stanze più fresche della casa e rinuncia alla sua dignità felina
Io invece prendo sempre molto sul serio il mio ruolo di sorveglianza domestica.
Ma soprattutto, quando lei è in casa non la lascio mai sola.
Il suo studio, al primo piano, esposto a sud, è la stanza più calda della casa e lei deve passarci qualche ora quando per lavorare le servono cose che sarebbe complicato trasportare altrove: stampante, scanner, documenti...
Non posso lasciarla lassù da sola a soffrire il caldo. Le faccio compagnia.
E quando cerca di allontanarsi, la trattengo.
Perché io le voglio bene.
PS: Voglio bene anche a lui, eh! Dovreste vedere come mi appendo alle sue gambe per trattenerlo quando sta per uscire e con quante coccole lo accolgo quando torna!
Mio fratello si rifugia nelle stanze più fresche della casa e rinuncia alla sua dignità felina
Io invece prendo sempre molto sul serio il mio ruolo di sorveglianza domestica.
Custodia dell'auto
Antifurto notturno
Assistenza al bagno
Controllo qualità sugli acquisti
Assaggi (casomai ci fosse qualche veleno)
Il suo studio, al primo piano, esposto a sud, è la stanza più calda della casa e lei deve passarci qualche ora quando per lavorare le servono cose che sarebbe complicato trasportare altrove: stampante, scanner, documenti...
Non posso lasciarla lassù da sola a soffrire il caldo. Le faccio compagnia.
E quando cerca di allontanarsi, la trattengo.
Perché io le voglio bene.
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