Il corso aveva un titolo suggestivo, Dignità nella cura e cura della dignità: operatori, pazienti e caregivers costruiscono un progetto condiviso, e i partecipanti appartenevano a varie categorie professionali: medici, infermiere, fisioterapisti, psicologhe, ostetriche... Un gruppo eterogeneo da cui sono arrivati contributi molto variegati.
Dopo un'introduzione teorica al concetto di dignità, a ognuno dei partecipanti è stato richiesto di scrivere una storia di violazione della dignità in cui è stato coinvolto, direttamente o indirettamente. Le esperienze sono state lette e discusse, prima in piccoli gruppi e poi in sessione plenaria, e sono diventate il punto di partenza per interessanti ragionamenti sul concetto di dignità.
Una considerazione mi ha particolarmente colpito e ci ho pensato parecchio nei giorni seguenti: il confine della dignità non solo è soggettivo, perché una stessa situazione può essere percepita come degradante da una persona e perfettamente accettabile per un'altra, ma può variare anche per lo stesso individuo in base alla situazione contingente.
La malattia, in particolare, porta a spostare tanti paletti, fa diventare accettabili, quasi normali, condizioni che per una persona sana sarebbero intollerabili.
Pensiamo al pudore: normalmente non siamo disposti a permettere che un estraneo entri nella nostra camera da letto, che ci accompagni in bagno, che ci veda nudi... Situazioni che invece durante un ricovero sono spesso inevitabili e che si sopportano con rassegnazione, talvolta addirittura con sincera gratitudine.
Ampliando il ragionamento, ho pensato che per un malato di cancro questo spostamento di paletti non riguarda solo la dignità.
Chi è affetto da una patologia grave spesso deve convivere con difficoltà e limitazioni fisiche, psicologiche e sociali e talvolta deve accettare compromessi molto pesanti per cercare di salvarsi.
Il cancro costringe sempre a rinunciare a qualcosa, è un ladro che ruba frammenti di vita, qualche volta la vita stessa. È un'ingiustizia? Certamente, ma la vita non è giusta, fatevene una ragione.
Questo rapinatore insidioso e subdolo sta smontando la mia vita e se ne porta via un pezzo alla volta.
- La forza e l'agilità, perché non posso più correre, saltare o arrampicarmi e in questi giorni faccio fatica anche solo a camminare.
- La capacità di recupero, con i tessuti più volte lacerati dal bisturi e bruciati dalle radiazioni che sembrano ormai incapaci di rigenerarsi e reagiscono al minimo sforzo con dolorose infiammazioni.
- L'autonomia, perché ci sono cose che, da sola, non riesco più a fare.
- Le energie, che non bastano più per lavorare a tempo pieno.
- La fertilità, con quella lama di sofferenza in fondo al cuore per la maternità negata.
- Le difese immunitarie, mai completamente ripristinate negli ultimi dieci anni.
- Ore, giorni, settimane e mesi di ricoveri, convalescenza, visite ed esami.
- La possibilità di guardare avanti, nel futuro, perché tutto si ferma al prossimo controllo.
- ...
Eppure, di fronte a questi furti gravi e ripetuti, la mia reazione non è mai stata di rabbia né di rifiuto. Sofferenza, certo, ma fino ad ora sono sempre riuscita a spostare i paletti senza troppa fatica e ad accettare questa vita tanto diversa da come l'avevo immaginata.
In questi giorni mi sono chiesta se questa mia elasticità non sia eccessiva, se non sia una forma di rassegnazione o di rinuncia. Non lo so.
Forse ho solo una buona dose di resilienza, in parte genetica e in parte costruita attraverso le mie esperienze, e ho ben chiara la mia priorità, che è sopravvivere.
O forse è soltanto perché così è più facile andare avanti.
*Nota: considerati tutti i crediti ECM delle iniziative a cui ho partecipato negli ultimi anni, dovrebbero darmi una qualifica sanitaria ad honorem