Talvolta il cambiamento è salutare.
Non fa bene fossilizzarsi nelle proprie abitudini, sprofondare troppo a lungo nel trantran: se il cervello non è stimolato, si addormenta. Al contrario, i nuovi stimoli mantengono la mente elastica e reattiva.
Chi si ferma è perduto, soprattutto in ambito lavorativo, e i liberi professionisti lo sanno bene. Bisogna continuamente tenersi aggiornati, restare al passo con l'evoluzione del proprio settore professionale, possibilmente anche estendere le proprie competenze in nuovi ambiti, altrimenti si rischia di essere tagliati fuori dal mercato.
Per una felice combinazione di professionalità e fortuna, in oltre sedici anni di attività da libero professionista sono sempre riuscita a mantenere una buona continuità lavorativa proprio grazie al cambiamento: nuovi incarichi quando i precedenti si concludevano, nuove tipologie di servizio da offrire ai clienti.
Ora mi è stata offerta l'opportunità di un grande cambiamento: tornare a lavorare come dipendente, sia pure part-time, in un settore per me completamente nuovo. Una sfida stimolante e una possibilità di crescita professionale, ma anche un salto nel buio.
Sarò capace di svolgere i compiti richiesti?
Sarò all'altezza delle aspettative del nuovo datore di lavoro? E soprattutto delle mie aspettative, dato che sono un datore di lavoro severissimo con me stessa?
Ce la farò a mantenere adeguati livelli di prestazione nell'attività professionale?
Sarò in grado di sostenere, fisicamente e mentalmente, un significativo aumento del carico di lavoro?
Riuscirò a riadattarmi ai ritmi poco flessibili del lavoro dipendente?
Potrò coltivare ancora i miei interessi extra lavorativi?
Spero di sì.
Dovrò cambiare ritmo, rinunciare a qualcosa, organizzarmi in modo efficiente, dire qualche "no".
Io ci provo.
mercoledì 16 settembre 2015
lunedì 14 settembre 2015
Oggetti misteriosi
Sabato pomeriggio.
Dopo avere affrontato di malavoglia le pulizie del mattino e la spesa dell'ora di pranzo (per trovare meno coda alle casse del supermercato), ho affrontato con altrettanto entusiasmo la pulizia interna dell'auto.
Non sono una maniaca dell'automobile: è semplicemente un oggetto che serve a trasportare persone e cose e un costante generatore di spese, dal momento dell'acquisto fino alla vendita o rottamazione. Non mi sfiora nemmeno l'idea di portarla all'autolavaggio più di quattro volte l'anno, ancor meno quella di dedicarmi alla pulizia interna con maggiore frequenza. Ma quando sui tappetini si iniziano a raccogliere ossa di dinosauro e fossili del Cretaceo, è ora di armarsi e partire: aspirapolvere, panno e detergente per vetri, panno e spray per superfici.
Parabrezza, cruscotto, volante, cambio, vano piedi conducente, sedile conducente, vano piedi passeggero, sedile passeggero, vano piedi posterio... Cosa sono queste schegge bianche?
Sembrano... pezzi di... unghie!
Ma io non mi sono mai tagliata le unghie in macchina. E non mi mangio le unghie.
Cosa ci fanno delle unghie nella mia macch... GAAANDAALF!!!
Dopo avere affrontato di malavoglia le pulizie del mattino e la spesa dell'ora di pranzo (per trovare meno coda alle casse del supermercato), ho affrontato con altrettanto entusiasmo la pulizia interna dell'auto.
Non sono una maniaca dell'automobile: è semplicemente un oggetto che serve a trasportare persone e cose e un costante generatore di spese, dal momento dell'acquisto fino alla vendita o rottamazione. Non mi sfiora nemmeno l'idea di portarla all'autolavaggio più di quattro volte l'anno, ancor meno quella di dedicarmi alla pulizia interna con maggiore frequenza. Ma quando sui tappetini si iniziano a raccogliere ossa di dinosauro e fossili del Cretaceo, è ora di armarsi e partire: aspirapolvere, panno e detergente per vetri, panno e spray per superfici.
Parabrezza, cruscotto, volante, cambio, vano piedi conducente, sedile conducente, vano piedi passeggero, sedile passeggero, vano piedi posterio... Cosa sono queste schegge bianche?
Sembrano... pezzi di... unghie!
Ma io non mi sono mai tagliata le unghie in macchina. E non mi mangio le unghie.
Cosa ci fanno delle unghie nella mia macch... GAAANDAALF!!!
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sabato 5 settembre 2015
Perché io?
Perché io?
È una domanda che probabilmente ogni paziente oncologico si è posto almeno una volta e che può avere più di un significato.
Il primo, il più immediato, il più comune è Perché mi è successa questa cosa orribile?
Questa domanda dà il via a una sorta di autoanalisi per cercare di capire. Forse nella tua famiglia c'è qualche familiarità per le patologie oncologiche, o forse no. Ti chiedi comunque dove hai sbagliato, magari sulla scia di qualche teoria più o meno scientifica sulle cause del cancro, che ti porta a mettere in discussione tutto quello che fai, mangi, bevi, respiri, pensi. Robe che se non ti uccide il cancro, lo fanno l'ansia e il senso di colpa.
C'è anche una seconda sfumatura: Perché proprio io e non qualcun altro?
Ti guardi intorno e vedi quello che fuma cinquanta sigarette al giorno, il forte bevitore, il divoratore di cibo spazzatura... Qualche volta fa capolino anche il pensiero, politicamente scorretto, che ci sono tanti bastardi di cui il mondo farebbe volentieri a meno, ma loro non hanno avuto il cancro e tu invece sì. Ma chi sei tu per decidere chi merita una buona salute e chi no?
Quando trascorre un po' di tempo dalla diagnosi, cosa decisamente auspicabile, accade che per qualche compagno di (dis)avventura il viaggio finisca tragicamente, mentre tu prosegui il tuo. Allora può scattare la domanda da sindrome del sopravvissuto: Perché io sono ancora qui mentre lui/lei non ce l'ha fatta? Come se dovessi vergognarti di essere vivo. Non è una bella cosa e soprattutto non serve a riportarli indietro.
Al contrario, può succedere che il tuo percorso oncologico si riveli particolarmente accidentato: effetti collaterali pesanti, malattia resistente alle terapie, recidive... Mentre invece qualche altro paziente supera con relativa facilità il periodo delle cure e arriva felicemente a completare il follow-up senza ulteriori complicazioni. Perché io devo ancora combattere mentre lui/lei è già guarito? L'invidia è una brutta bestia...
Perché io?
Ho fatto i conti anch'io con questa domanda, in tutte le sue sfumature. Ma li ho chiusi sempre velocemente, perché sono inutili: non servono a stare meglio, anzi, se ci si dedica troppa attenzione diventano fonte di stress.
Perché mi è successo? Non lo so. Ma probabilmente è stata solo sfiga.
Perché proprio a me? Non lo so. Ma perché no?
Perché io sono ancora qui mentre Anna, Anna Lisa, Lara, Gabriele, Alessio e tanti altri non ci sono più? Non lo so. Ma mi mancano tanto
Perché a distanza di dieci anni dal primo insorgere della malattia sono ancora alle prese con controlli bimestrali? Non lo so. Ma l'importante è esserci e poter gioire dei piccoli e grandi traguardi raggiunti, peraltro non senza difficoltà, dalle persone che mi sono care. Come Romina, che tra poco festeggia dieci anni, ma quel post di due anni fa è così meraviglioso che vale sempre la pena di rivederlo. Oppure gli undici anni di Rosie, i cinque di Mamigà, i sette Claudia e tanti altri.
Perché io? Boh. Non lo so. Non importa.
È una domanda che probabilmente ogni paziente oncologico si è posto almeno una volta e che può avere più di un significato.
Il primo, il più immediato, il più comune è Perché mi è successa questa cosa orribile?
Questa domanda dà il via a una sorta di autoanalisi per cercare di capire. Forse nella tua famiglia c'è qualche familiarità per le patologie oncologiche, o forse no. Ti chiedi comunque dove hai sbagliato, magari sulla scia di qualche teoria più o meno scientifica sulle cause del cancro, che ti porta a mettere in discussione tutto quello che fai, mangi, bevi, respiri, pensi. Robe che se non ti uccide il cancro, lo fanno l'ansia e il senso di colpa.
C'è anche una seconda sfumatura: Perché proprio io e non qualcun altro?
Ti guardi intorno e vedi quello che fuma cinquanta sigarette al giorno, il forte bevitore, il divoratore di cibo spazzatura... Qualche volta fa capolino anche il pensiero, politicamente scorretto, che ci sono tanti bastardi di cui il mondo farebbe volentieri a meno, ma loro non hanno avuto il cancro e tu invece sì. Ma chi sei tu per decidere chi merita una buona salute e chi no?
Quando trascorre un po' di tempo dalla diagnosi, cosa decisamente auspicabile, accade che per qualche compagno di (dis)avventura il viaggio finisca tragicamente, mentre tu prosegui il tuo. Allora può scattare la domanda da sindrome del sopravvissuto: Perché io sono ancora qui mentre lui/lei non ce l'ha fatta? Come se dovessi vergognarti di essere vivo. Non è una bella cosa e soprattutto non serve a riportarli indietro.
Al contrario, può succedere che il tuo percorso oncologico si riveli particolarmente accidentato: effetti collaterali pesanti, malattia resistente alle terapie, recidive... Mentre invece qualche altro paziente supera con relativa facilità il periodo delle cure e arriva felicemente a completare il follow-up senza ulteriori complicazioni. Perché io devo ancora combattere mentre lui/lei è già guarito? L'invidia è una brutta bestia...
Perché io?
Ho fatto i conti anch'io con questa domanda, in tutte le sue sfumature. Ma li ho chiusi sempre velocemente, perché sono inutili: non servono a stare meglio, anzi, se ci si dedica troppa attenzione diventano fonte di stress.
Perché mi è successo? Non lo so. Ma probabilmente è stata solo sfiga.
Perché proprio a me? Non lo so. Ma perché no?
Perché io sono ancora qui mentre Anna, Anna Lisa, Lara, Gabriele, Alessio e tanti altri non ci sono più? Non lo so. Ma mi mancano tanto
Perché a distanza di dieci anni dal primo insorgere della malattia sono ancora alle prese con controlli bimestrali? Non lo so. Ma l'importante è esserci e poter gioire dei piccoli e grandi traguardi raggiunti, peraltro non senza difficoltà, dalle persone che mi sono care. Come Romina, che tra poco festeggia dieci anni, ma quel post di due anni fa è così meraviglioso che vale sempre la pena di rivederlo. Oppure gli undici anni di Rosie, i cinque di Mamigà, i sette Claudia e tanti altri.
Perché io? Boh. Non lo so. Non importa.
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riflessioni (quasi) serie
venerdì 4 settembre 2015
Grandi manovre
Le ferie domestiche di quest'anno hanno risvegliato il mio spirito casalingo, che solitamente è in uno stato di profondo letargo o di quasi-coma.
Nel fine settimana scorso - udite, udite! - abbiamo messo le tende in cucina. Non sostituite, no: le abbiamo montate per la prima volta dal quando sono venuta ad abitare in questa casa, nel lontano 2002, privando gli abitanti della via del dubbio piacere di ammirarci mentre siamo a tavola. Così se prima in casa ci mettevamo abiti comodi, ma pur sempre decenti, adesso che la nostra privacy è più protetta siamo allo svacco totale.
Il repulisti della cucina si è concluso ieri, quando ho approfittato di mezza giornata di libertà dal lavoro per svuotare, pulire e riorganizzare la dispensa, eliminando cose inenarrabili, come un vasetto di marmellata scaduto nel 2011 che era misteriosamente sopravvissuto alle precedenti cernite (NdA: non regalatemi marmellata!). Alla fine ho recuperato talmente tanto spazio che Renato ha chiesto se erano passati i ladri.
Ma il sacro fuoco non si era ancora spento.
Una spedizione inizialmente finalizzata all'acquisto di un nuovo telecomando per la TV e al ripristino delle scorte di croccantini per i gatti, ha fruttato anche - inaspettatamente - il lampadario per la cameretta. Come sopra, non un nuovo lampadario, ma il primo lampadario per quella stanza, che fino a oggi si era accontentata di una nuda lampadina. Come peraltro lo studio, il vano scale, il corridoio delle camere, due bagni su tre, la lavanderia e il garage.. Perché quello non mi piace, quell'altro è un ricettacolo di polvere, l'altro ancora scherma troppo la lampada rubando luce... Insomma, ci ho messo 12 anni per trovare qualcosa che mi soddisfacesse a un prezzo ragionevole. E alla fine non sono andata molto lontano da quello che c'era già, a parte le dimensioni.
Oggi pomeriggio, quando Renato è tornato dal lavoro, ci siamo dedicati all'installazione. Apparentemente nulla di complicato: due tasselli da fissare al soffitto, tre fili da collegare, qualche vite da stringere.
Ma se becco quello che ha progettato questo lampadario, glielo faccio smontare e rimontare davanti ai miei occhi e rimane lì finché non ci riesce o - più probabilmente - muore nel tentativo.
Già, perché il cilindro di collegamento al soffitto è minuscolo e bisogna:
Se non fossimo due personcine ammodo, avremmo tirato giù tutti i santi del calendario, da Abele a Zaccaria.
Nel fine settimana scorso - udite, udite! - abbiamo messo le tende in cucina. Non sostituite, no: le abbiamo montate per la prima volta dal quando sono venuta ad abitare in questa casa, nel lontano 2002, privando gli abitanti della via del dubbio piacere di ammirarci mentre siamo a tavola. Così se prima in casa ci mettevamo abiti comodi, ma pur sempre decenti, adesso che la nostra privacy è più protetta siamo allo svacco totale.
Il repulisti della cucina si è concluso ieri, quando ho approfittato di mezza giornata di libertà dal lavoro per svuotare, pulire e riorganizzare la dispensa, eliminando cose inenarrabili, come un vasetto di marmellata scaduto nel 2011 che era misteriosamente sopravvissuto alle precedenti cernite (NdA: non regalatemi marmellata!). Alla fine ho recuperato talmente tanto spazio che Renato ha chiesto se erano passati i ladri.
Ma il sacro fuoco non si era ancora spento.
Una spedizione inizialmente finalizzata all'acquisto di un nuovo telecomando per la TV e al ripristino delle scorte di croccantini per i gatti, ha fruttato anche - inaspettatamente - il lampadario per la cameretta. Come sopra, non un nuovo lampadario, ma il primo lampadario per quella stanza, che fino a oggi si era accontentata di una nuda lampadina. Come peraltro lo studio, il vano scale, il corridoio delle camere, due bagni su tre, la lavanderia e il garage.. Perché quello non mi piace, quell'altro è un ricettacolo di polvere, l'altro ancora scherma troppo la lampada rubando luce... Insomma, ci ho messo 12 anni per trovare qualcosa che mi soddisfacesse a un prezzo ragionevole. E alla fine non sono andata molto lontano da quello che c'era già, a parte le dimensioni.
Oggi pomeriggio, quando Renato è tornato dal lavoro, ci siamo dedicati all'installazione. Apparentemente nulla di complicato: due tasselli da fissare al soffitto, tre fili da collegare, qualche vite da stringere.
Ma se becco quello che ha progettato questo lampadario, glielo faccio smontare e rimontare davanti ai miei occhi e rimane lì finché non ci riesce o - più probabilmente - muore nel tentativo.
Già, perché il cilindro di collegamento al soffitto è minuscolo e bisogna:
- Farci entrare i cavi elettrici, il fil di ferro per l'aggancio a soffitto, la scatola dei connettori e gli occhielli dei cavi da sospensione; praticamente è come infilare cinque elefanti in una Yaris: una cosa possibile in teoria, 2 davanti e 3 dietro, ma provateci e poi ne parliamo.
- Inserire e avvitare le viti di bloccaggio in uno spazio di un paio di centimetri tra il soffitto e la piastra circolare di base, senza nessuna possibilità di pre-avvitarle perché il foro esterno è troppo largo, tenendo ferma la struttura con una mano (con i cinque elefanti dentro che lottano per uscire) mentre con l'altra si impugna il cacciavite e con l'altra si inserisce la vite. Ah, dite che avete solo due mani? Anch'io.
Se non fossimo due personcine ammodo, avremmo tirato giù tutti i santi del calendario, da Abele a Zaccaria.
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