Di fronte alla pandemia, tante voci, dai comuni cittadini ai capi di Stato, stanno proponendo di lasciare che il virus faccia il suo corso. Lasciamolo libero: ci saranno tanti morti, è vero, ma alla fine si fermerà da solo.
(forse)
Altri propongono di tornare alla normalità, di riaprire le attività commerciali e produttive: Non si può mica fermare l'economia mondiale per salvare qualche migliaio di vite!
(decine di migliaia? centinaia di migliaia? milioni?)
La motivazione di fondo è sempre la stessa: per la maggior parte dei contagiati, questo virus è quasi innocuo, provoca una malattia seria, talvolta la morte, quasi esclusivamente nei soggetti con altre patologie, malati cronici, anziani, pazienti oncologici, immunodepressi... Ci sono alcuni casi gravi e decessi anche tra i soggetti giovani e sani, ma sono davvero pochissimi; è quasi sempre vero che il coronavirus SARS-CoV-2 è un serial killer solo per le persone più fragili.
Noi.
Siamo quelli che costano ogni anno decine di migliaia di euro al Servizio Sanitario Nazionale tra esami, visite, ricoveri, farmaci e ausili. E non pagano niente perché hanno l'esenzione, fortunelli!
Quelli che svuotano le casse dell'INPS con le pensioni di invalidità, le indennità di accompagnamento e i permessi retribuiti. Fanno la bella vita a spese dei contribuenti, parassiti!
Quelli che occupano tanti posti letto in ospedale e saturano le liste d'attesa per le prestazioni sanitarie. Sempre tra i piedi, e hanno anche la priorità!
Quelli che hanno i parcheggi riservati e hanno pure il coraggio di arrabbiarsi se li trovano occupati da un'auto senza contrassegno. Cosa vuoi che sia, mi sono fermato solo cinque minuti; e poi che bisogno avranno mai di andarsene in giro tutti questi handicappati?
Quelli che anche senza la minaccia del coronavirus hanno un'aspettativa di vita limitata. E allora per cosa rompono tanto le scatole, che tanto tra poco muoiono lo stesso?
Quelli che pesano sempre sugli altri. Che stiano a casa loro, non io!
Siamo proprio noi, quelli che già prima del coronavirus erano un peso per la società e probabilmente qualcuno sta pensando che questa è l'occasione buona per tirarci giù dalle spese.
Pensate che risparmi per la sanità e le pensioni, quanto più tempo libero per le famiglie, quanti spazi e risorse rimessi a disposizione dei cittadini "normali"...
E allora scusateci se invece noi continuiamo ad aggrapparci con le unghie e con i denti alle nostre esistenze a scadenza ravvicinata, se insistiamo a volerci tenere strette quelle che, evidentemente, qualcuno considera vite indegne di essere vissute.
Noi, invece, le vogliamo vivere fino in fondo.
Pagine
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lunedì 30 marzo 2020
giovedì 19 marzo 2020
Il momento del noi
Tante persone vivono questo periodo di isolamento con grande disagio, insofferenza, fastidio. Troppi, per questo motivo, contravvengono alle regole di isolamento e favoriscono la diffusione del contagio.
Hanno tutti una scusa, che quasi sempre inizia con io: io non posso fare a meno della passeggiata, io devo andare a prendere le sigarette, io non riesco a stare chiuso in casa... Io, io, io.
Questo invece è il momento del noi.
In una situazione così drammatica è indispensabile pensare al bene di tutti, prima che al nostro, bisogna scoprire una responsabilità collettiva che nella società italiana non è mai stata tanto diffusa, ma di cui ora non possiamo fare a meno.
Molti non hanno ancora capito la dimensione di questa catastrofe, io stessa la sento come qualcosa di astratto, ma solo perché non mi ha ancora colpito direttamente: nessun contagio tra i miei conoscenti, nessun lutto. Ma ci sono più di tremila famiglie che piangono i loro morti.
Credo di aver realizzato davvero quanto sia grave la situazione solo quando ho sentito le interviste agli addetti alle pompe funebri, quando ho visto l'immagine dei mezzi dell'esercito che trasportano le salme da Bergamo verso i forni crematori di altre Regioni, perché quelli della Lombardia non ce la fanno.
Dobbiamo tutti fare del nostro meglio per limitare la diffusione del virus, dobbiamo evitare i contatti, dobbiamo restare a casa.
Ieri mi chiedevo come mai sopporto la segregazione meglio di quasi tutti i miei conoscenti.
Poi ho pensato a dove mi trovavo un anno fa, a dove mi trovavo sei mesi fa.
Non solo non potevo uscire, non potevo nemmeno alzarmi dal letto. Ogni giorno, ogni ora dovevo fare i conti con il dolore, la nostalgia, la mancanza di autonomia, la solitudine. Ero lontana da casa, da Renato, dai gatti. Sto decisamente meglio, adesso.
La clausura non è meno pesante per me, sono solo molto più allenata a sopportarla.
Hanno tutti una scusa, che quasi sempre inizia con io: io non posso fare a meno della passeggiata, io devo andare a prendere le sigarette, io non riesco a stare chiuso in casa... Io, io, io.
Questo invece è il momento del noi.
In una situazione così drammatica è indispensabile pensare al bene di tutti, prima che al nostro, bisogna scoprire una responsabilità collettiva che nella società italiana non è mai stata tanto diffusa, ma di cui ora non possiamo fare a meno.
Molti non hanno ancora capito la dimensione di questa catastrofe, io stessa la sento come qualcosa di astratto, ma solo perché non mi ha ancora colpito direttamente: nessun contagio tra i miei conoscenti, nessun lutto. Ma ci sono più di tremila famiglie che piangono i loro morti.
Credo di aver realizzato davvero quanto sia grave la situazione solo quando ho sentito le interviste agli addetti alle pompe funebri, quando ho visto l'immagine dei mezzi dell'esercito che trasportano le salme da Bergamo verso i forni crematori di altre Regioni, perché quelli della Lombardia non ce la fanno.
Dobbiamo tutti fare del nostro meglio per limitare la diffusione del virus, dobbiamo evitare i contatti, dobbiamo restare a casa.
Ieri mi chiedevo come mai sopporto la segregazione meglio di quasi tutti i miei conoscenti.
Poi ho pensato a dove mi trovavo un anno fa, a dove mi trovavo sei mesi fa.
Non solo non potevo uscire, non potevo nemmeno alzarmi dal letto. Ogni giorno, ogni ora dovevo fare i conti con il dolore, la nostalgia, la mancanza di autonomia, la solitudine. Ero lontana da casa, da Renato, dai gatti. Sto decisamente meglio, adesso.
La clausura non è meno pesante per me, sono solo molto più allenata a sopportarla.
lunedì 16 marzo 2020
Surreale
Stamattina sono stata a Padova per la visita ortopedica di controllo.
Già uscire dalla stradina in cui abito ci ha dato la misura di quanto fosse anomala la situazione: la strada regionale, normalmente molto trafficata, era quasi deserta. In autostrada c'erano mezzi pesanti, meno del solito ma non pochissimi e quasi nessuna auto. Chissà che ci sia stato finalmente un contagio di buon senso. E forse, quando finirà l'emergenza, avremo finalmente capito che possiamo usare l'auto meno, molto meno di quanto abbiamo fatto fino ad ora.
La zona vicina all'uscita autostradale di Padova Est aveva un aspetto surreale: traffico pressoché azzerato. La rotonda della Stanga, in cui normalmente bisogna infilarsi con un po' di spregiudicatezza altrimenti non si passa mai, era quasi deserta.
Pensavamo di trovare facilmente parcheggio davanti alla clinica ortopedica, invece tutti i posti erano occupati. Il motivo ci è stato chiaro proseguendo in cerca di uno spazio libero: il parcheggio più grande è inservibile, interamente occupato dalle tende del triage. Abbiamo comunque trovato un posto auto per disabili a circa 350 metri di distanza, fortunatamente è una bella giornata e quella breve passeggiata non ci è dispiaciuta.
All'ingresso della clinica ortopedica, controllo con termoscanner: tutto ok, non abbiamo febbre. All'interno abbiamo trovato un'atmosfera ovattata: poca gente, tanto silenzio.
Il terzo piano, quello in cui avevo passato le ultime due settimane di degenza, è chiuso, vengono ricoverati solo i pazienti in situazione di urgenza, tutti al quarto piano. Uno specializzando era attaccato al telefono, chiamava un paziente dopo l'altro per annunciare l'annullamento degli interventi programmati non urgenti.
Tutto il personale indossava le mascherine chirurgiche e anche molti pazienti. Noi no, e non perché vogliamo fare i supereroi, semplicemente non ne abbiamo più.
Tutti attenti a rispettare le distanze nell'atrio, in corridoio, nelle sale d'attesa: una persona in ogni angolo, più lontano possibile dagli altri.
Lì ho vissuto un momento davvero difficile, sono riuscita a superarlo solo con molta fatica.
Non potete immaginarlo, se non ci siete passati.
Davvero brutto.
Avevo quasi le lacrime agli occhi.
Mi veniva da starnutire!
Non sono raffreddata, chi mi conosce sa che vado da sempre soggetta ad attacchi interminabili di starnuti, spesso otto o dieci, ma talvolta anche quindici, venti o più. A Jesolo, nella sala da pranzo del reparto, le mie file di starnuti erano diventate una barzelletta. È una cosa di famiglia: li faceva mio nonno, la Maria e molte delle sue sorelle, alcuni dei cugini. Non siamo mai riusciti a capirne la causa; a me di solito capitano appena finisco di mangiare, soprattutto se ho consumato latticini, ma non sempre e non solo: possono arrivare al mattino a digiuno, alla sera prima di dormire o in qualsiasi altro momento della giornata. O nella sala d'attesa di un ospedale ai tempi del coronavirus.
Non so come, ma sono riuscita a trattenermi. Hai voglia a spiegare, sono sicura che se avessi iniziato a starnutire, avrei regalato due settimane di incubi alle altre tre persone presenti nella stanza.
Mi hanno chiamato per la visita addirittura con qualche minuto di anticipo: il medico ha guardato il referto della TAC, le analisi del sangue, mi ha chiesto come va, ha controllato il moncone: abile e arruolata e arrivederci fra tre mesi.
Spero solo che questa uscita non sia stata un'occasione di contagio.
Siamo tornati direttamente a casa, senza fermarci a mangiare: al massimo avremmo potuto passare al McDrive, ma in frigo c'erano gli avanzi delle fatiche culinarie del weekend, meglio pranzare un po' più tardi, ma con cose buone e tranquilli a casa nostra.
Già uscire dalla stradina in cui abito ci ha dato la misura di quanto fosse anomala la situazione: la strada regionale, normalmente molto trafficata, era quasi deserta. In autostrada c'erano mezzi pesanti, meno del solito ma non pochissimi e quasi nessuna auto. Chissà che ci sia stato finalmente un contagio di buon senso. E forse, quando finirà l'emergenza, avremo finalmente capito che possiamo usare l'auto meno, molto meno di quanto abbiamo fatto fino ad ora.
La zona vicina all'uscita autostradale di Padova Est aveva un aspetto surreale: traffico pressoché azzerato. La rotonda della Stanga, in cui normalmente bisogna infilarsi con un po' di spregiudicatezza altrimenti non si passa mai, era quasi deserta.
Pensavamo di trovare facilmente parcheggio davanti alla clinica ortopedica, invece tutti i posti erano occupati. Il motivo ci è stato chiaro proseguendo in cerca di uno spazio libero: il parcheggio più grande è inservibile, interamente occupato dalle tende del triage. Abbiamo comunque trovato un posto auto per disabili a circa 350 metri di distanza, fortunatamente è una bella giornata e quella breve passeggiata non ci è dispiaciuta.
All'ingresso della clinica ortopedica, controllo con termoscanner: tutto ok, non abbiamo febbre. All'interno abbiamo trovato un'atmosfera ovattata: poca gente, tanto silenzio.
Il terzo piano, quello in cui avevo passato le ultime due settimane di degenza, è chiuso, vengono ricoverati solo i pazienti in situazione di urgenza, tutti al quarto piano. Uno specializzando era attaccato al telefono, chiamava un paziente dopo l'altro per annunciare l'annullamento degli interventi programmati non urgenti.
Tutto il personale indossava le mascherine chirurgiche e anche molti pazienti. Noi no, e non perché vogliamo fare i supereroi, semplicemente non ne abbiamo più.
Tutti attenti a rispettare le distanze nell'atrio, in corridoio, nelle sale d'attesa: una persona in ogni angolo, più lontano possibile dagli altri.
Lì ho vissuto un momento davvero difficile, sono riuscita a superarlo solo con molta fatica.
Non potete immaginarlo, se non ci siete passati.
Davvero brutto.
Avevo quasi le lacrime agli occhi.
Mi veniva da starnutire!
Non sono raffreddata, chi mi conosce sa che vado da sempre soggetta ad attacchi interminabili di starnuti, spesso otto o dieci, ma talvolta anche quindici, venti o più. A Jesolo, nella sala da pranzo del reparto, le mie file di starnuti erano diventate una barzelletta. È una cosa di famiglia: li faceva mio nonno, la Maria e molte delle sue sorelle, alcuni dei cugini. Non siamo mai riusciti a capirne la causa; a me di solito capitano appena finisco di mangiare, soprattutto se ho consumato latticini, ma non sempre e non solo: possono arrivare al mattino a digiuno, alla sera prima di dormire o in qualsiasi altro momento della giornata. O nella sala d'attesa di un ospedale ai tempi del coronavirus.
Non so come, ma sono riuscita a trattenermi. Hai voglia a spiegare, sono sicura che se avessi iniziato a starnutire, avrei regalato due settimane di incubi alle altre tre persone presenti nella stanza.
Mi hanno chiamato per la visita addirittura con qualche minuto di anticipo: il medico ha guardato il referto della TAC, le analisi del sangue, mi ha chiesto come va, ha controllato il moncone: abile e arruolata e arrivederci fra tre mesi.
Spero solo che questa uscita non sia stata un'occasione di contagio.
Siamo tornati direttamente a casa, senza fermarci a mangiare: al massimo avremmo potuto passare al McDrive, ma in frigo c'erano gli avanzi delle fatiche culinarie del weekend, meglio pranzare un po' più tardi, ma con cose buone e tranquilli a casa nostra.
pasticcio di carne in crosta
pizza con impasto integrale e farciture ricotta, mozzarella, bufala, porro e speck (a sinistra) e ricotta, mozzarella, bufala, salsiccia, scalogno, porcini, radicchio e provola (a destra)
venerdì 13 marzo 2020
Responsabilità
Non so bene cosa stia succedendo fuori di qui.
Sono chiusa in casa da giorni, ho messo il naso fuori dalla finestra solo per sbattere il plaid dei gatti ed è stato stranissimo vedere la tangenziale vuota, non è passato nemmeno un veicolo, mancavano solo i cespugli rotolanti.
Per me le cose non sono cambiate molto. Lavoro da casa già da quattro mesi, l'unica differenza è che ora non vado in ufficio nemmeno la mezza giornata del mercoledì. Prima del coronavirus uscivo raramente, ora non esco per niente. Qualcuno veniva a trovarmi ogni tanto, ora no. Piccole rinunce, davvero roba da poco, che non mi creano particolare disagio.
Ho paura? Sì, un po'.
Per il momento sto bene, giusto un po' ipocondriaca. Cos'è questo colpo di tosse? (saliva di traverso) Perché stamattina mi gocciola il naso? (il mio naso gocciola sempre al mattino) Come mai oggi mi sento così debole? (nella sessione di ginnastica di martedì sono riuscita a tenere solo 20 secondi di plank anziché 30, voglio vedere voi...)
Il rischio di contagio per me dovrebbe essere relativamente basso, proprio per la vita ritirata che faccio e facevo anche prima, ma non vivo sotto una campana di vetro. Renato va al lavoro e a fare la spesa, con la massima prudenza, ma il virus potrebbe essere annidato ovunque. Ho il sospetto che la pandemia si fermerà solo quando tutti o quasi saranno stati contagiati, potrebbe non essere una questione di "se" ma di "quando".
Non so se ho più paura della malattia in sé - con il mio livello di globuli bianchi le probabilità di sviluppare sintomi severi sarebbero piuttosto elevate - oppure di quello che potrebbe comportare: di nuovo in ospedale, in isolamento, senza Renato e senza gatti, di nuovo debole e senza autonomia, imprigionata in quel mondo di letti scomodi e bagni in comune, di orari rigidi e rumori molesti, di odori e sapori sgradevoli. È una prospettiva devastante.
Però non ci penso spesso, per lo più sono tranquilla.
Non sono tranquilli invece quelli che devono prendere decisioni da cui dipende la salute degli altri.
Pubblici amministratori, datori di lavoro, dirigenti, medici: persone che devono stabilire cosa chiudere e cosa no, chi va al lavoro e chi sta a casa, chi va in terapia intensiva e chi no. E che hanno la responsabilità di proteggere i cittadini, i dipendenti, i collaboratori, i pazienti.
Non vorrei essere nei loro panni, davvero.
Governo, Regioni e Comuni che cercano soluzioni per fermare il contagio senza fermare il Paese. Si può far meglio? Sicuramente. Chi ha tutte le risposte e le soluzioni giuste alzi la mano, io no: credo che in una situazione completamente inedita qualche errore sia inevitabile.
La mia azienda è una di quelle che non può fermarsi perché forniamo, tra le altre cose, anche un pubblico servizio. Capi e colleghi sono impegnati a definire le strategie per minimizzare i contatti e i rischi di contagio e a mettere a disposizione gli strumenti di protezione per chi deve necessariamente recarsi al lavoro. Non oso immaginare la pressione a cui sono sottoposti.
Per non parlare di chi gestisce ospedali, cliniche e strutture di accoglienza per soggetti fragili, in cui un focolaio epidemico può provocare una strage. O dei medici che devono gestire più pazienti che posti letto.
Sono responsabilità enormi e io ho una grande ammirazione per le persone che hanno il coraggio di assumersele. Certo, c'è chi le gestisce con saggezza e prudenza e chi invece le affronta in modo superficiale e sconsiderato.
Sono chiusa in casa da giorni, ho messo il naso fuori dalla finestra solo per sbattere il plaid dei gatti ed è stato stranissimo vedere la tangenziale vuota, non è passato nemmeno un veicolo, mancavano solo i cespugli rotolanti.
Per me le cose non sono cambiate molto. Lavoro da casa già da quattro mesi, l'unica differenza è che ora non vado in ufficio nemmeno la mezza giornata del mercoledì. Prima del coronavirus uscivo raramente, ora non esco per niente. Qualcuno veniva a trovarmi ogni tanto, ora no. Piccole rinunce, davvero roba da poco, che non mi creano particolare disagio.
Ho paura? Sì, un po'.
Per il momento sto bene, giusto un po' ipocondriaca. Cos'è questo colpo di tosse? (saliva di traverso) Perché stamattina mi gocciola il naso? (il mio naso gocciola sempre al mattino) Come mai oggi mi sento così debole? (nella sessione di ginnastica di martedì sono riuscita a tenere solo 20 secondi di plank anziché 30, voglio vedere voi...)
Il rischio di contagio per me dovrebbe essere relativamente basso, proprio per la vita ritirata che faccio e facevo anche prima, ma non vivo sotto una campana di vetro. Renato va al lavoro e a fare la spesa, con la massima prudenza, ma il virus potrebbe essere annidato ovunque. Ho il sospetto che la pandemia si fermerà solo quando tutti o quasi saranno stati contagiati, potrebbe non essere una questione di "se" ma di "quando".
Non so se ho più paura della malattia in sé - con il mio livello di globuli bianchi le probabilità di sviluppare sintomi severi sarebbero piuttosto elevate - oppure di quello che potrebbe comportare: di nuovo in ospedale, in isolamento, senza Renato e senza gatti, di nuovo debole e senza autonomia, imprigionata in quel mondo di letti scomodi e bagni in comune, di orari rigidi e rumori molesti, di odori e sapori sgradevoli. È una prospettiva devastante.
Però non ci penso spesso, per lo più sono tranquilla.
Non sono tranquilli invece quelli che devono prendere decisioni da cui dipende la salute degli altri.
Pubblici amministratori, datori di lavoro, dirigenti, medici: persone che devono stabilire cosa chiudere e cosa no, chi va al lavoro e chi sta a casa, chi va in terapia intensiva e chi no. E che hanno la responsabilità di proteggere i cittadini, i dipendenti, i collaboratori, i pazienti.
Non vorrei essere nei loro panni, davvero.
Governo, Regioni e Comuni che cercano soluzioni per fermare il contagio senza fermare il Paese. Si può far meglio? Sicuramente. Chi ha tutte le risposte e le soluzioni giuste alzi la mano, io no: credo che in una situazione completamente inedita qualche errore sia inevitabile.
La mia azienda è una di quelle che non può fermarsi perché forniamo, tra le altre cose, anche un pubblico servizio. Capi e colleghi sono impegnati a definire le strategie per minimizzare i contatti e i rischi di contagio e a mettere a disposizione gli strumenti di protezione per chi deve necessariamente recarsi al lavoro. Non oso immaginare la pressione a cui sono sottoposti.
Per non parlare di chi gestisce ospedali, cliniche e strutture di accoglienza per soggetti fragili, in cui un focolaio epidemico può provocare una strage. O dei medici che devono gestire più pazienti che posti letto.
Sono responsabilità enormi e io ho una grande ammirazione per le persone che hanno il coraggio di assumersele. Certo, c'è chi le gestisce con saggezza e prudenza e chi invece le affronta in modo superficiale e sconsiderato.
Ecco, io vorrei ringraziare oltre a tutti gli eroi che negli ospedali stanno combattendo una battaglia titanica per salvare più vite possibile, anche tutti quelli che dietro a una scrivania sono chiamati a prendere decisioni difficilissime e, con coscienza, fanno del loro meglio.
lunedì 9 marzo 2020
A cuccia!
La situazione sanitaria è cambiata rispetto alla settimana scorsa, per cui oggi c'è una sola regola:
Qui siamo in zona rossa, ma se anche non lo fosse, me ne starei buona buona a cuccia. Non c'è da scherzare: ci mancherebbe solo che dopo essere riuscita a sfangarla per quindici anni con il cancro mi facessi fregare da un virus!
Non andrò in ufficio nelle prossime settimane, uscirò di casa solo per la visita ortopedica, confermata, mentre quella oncologica è stata rinviata perché l'Istituto Oncologico - giustamente - ha deciso di sospendere le visite non urgenti per tutelare i pazienti in terapia, che sono particolarmente fragili.
Renato va al lavoro e a fare la spesa di alimentari. Fine della nostra vita sociale.
Non patisco la segregazione, sono un animale domestico, sto benissimo a casa mia e non sento l'esigenza di uscire a ogni costo. Non soffro nemmeno la mancanza di compagnia, sono un animale solitario. Lavoro, coccolo i miei gatti, gioco, guardo la TV sul divano con Renato, leggo e mi adatto di buon grado alle norme di sicurezza antivirus, sperando che siano sufficienti per proteggermi e per rallentare il contagio.
E spero anche che gli Italiani si mostrino più responsabili di quanto abbiano fatto nelle ultime settimane, perché finché c'è gente che si preoccupa perché i bar chiudono alle 18, siamo presi davvero male. Davvero, quale parte di "restate a casa" non vi è chiara?
RESTATE A CASA!!!
Qui siamo in zona rossa, ma se anche non lo fosse, me ne starei buona buona a cuccia. Non c'è da scherzare: ci mancherebbe solo che dopo essere riuscita a sfangarla per quindici anni con il cancro mi facessi fregare da un virus!
Non andrò in ufficio nelle prossime settimane, uscirò di casa solo per la visita ortopedica, confermata, mentre quella oncologica è stata rinviata perché l'Istituto Oncologico - giustamente - ha deciso di sospendere le visite non urgenti per tutelare i pazienti in terapia, che sono particolarmente fragili.
Renato va al lavoro e a fare la spesa di alimentari. Fine della nostra vita sociale.
Non patisco la segregazione, sono un animale domestico, sto benissimo a casa mia e non sento l'esigenza di uscire a ogni costo. Non soffro nemmeno la mancanza di compagnia, sono un animale solitario. Lavoro, coccolo i miei gatti, gioco, guardo la TV sul divano con Renato, leggo e mi adatto di buon grado alle norme di sicurezza antivirus, sperando che siano sufficienti per proteggermi e per rallentare il contagio.
E spero anche che gli Italiani si mostrino più responsabili di quanto abbiano fatto nelle ultime settimane, perché finché c'è gente che si preoccupa perché i bar chiudono alle 18, siamo presi davvero male. Davvero, quale parte di "restate a casa" non vi è chiara?
lunedì 2 marzo 2020
Lezioni da Coronavirus
COVID19 è una bella rogna.
- "Ma è solo un'influenza!"
Sarà, ma il 37% dei contagiati finisce in ospedale, l'8% in terapia intensiva, il 2% muore. Sono numeri importanti (dati Ministero della Salute)
- "Ma crea problemi solo ai soggetti deboli: anziani, diabetici, cardiopatici, oncologici, immunodepressi..."
Appunto: quelli come me.
Però, come per tutte le crisi, anche da questa epidemia possiamo imparare qualche lezione.
Gli Italiani stanno scoprendo alcune regole di base che, se rispettate, potrebbero ridurre di molto l'incidenza di tutte le malattie virali, dal raffreddore alle normali influenze stagionali.
1. PRIMA LEGGE DEL VIRUS: BISOGNA LAVARSI LE MANI!
2. SECONDA LEGGE DEL VIRUS: CHI STA MALE DEVE RESTARE A CASA e non andare in giro a infettare gli altri.
3. TERZA LEGGE DEL VIRUS: SI VA IN OSPEDALE SOLO QUANDO È INDISPENSABILE e non si intasa il Pronto Soccorso per piccoli malanni che possono essere tranquillamente gestiti dal medico di base o da uno specialista senza urgenza.
Da queste leggi fondamentali derivano altre enunciazioni:
1.1 Teorema dell'igiene: lavatevi anche il resto. Spesso.
2.1 Postulato dei disgraziati: l'influenza, qualsiasi influenza, si cura a letto o tutt'al più sul divano di casa propria; se avete una qualsiasi combinazione di febbre, tosse, raffreddore, mal di gola e andate al lavoro, al cinema, allo stadio, al centro commerciale... non siete eroi, siete untori!
2.2 Corollario del tempo libero: è possibile sopravvivere anche senza vacanze, spettacoli, ristoranti, shopping, partite di calcio e altri eventi sociali; si risparmia, anche.
2.2.1 Corollario del tempo libero applicato: se tutti vivono come indicato nel corollario del tempo libero, l'economia crolla.
2.2.1.1 Teorema del buon senso: se avete anche solo un ragionevole sospetto di poter essere contagiosi o di essere soggetti fragili, state a casa, altrimenti uscite pure.
2.3 Raccomandazione sulle pubblicità criminali: dovrebbero essere sanzionate le pubblicità che invitano, in caso di sintomi influenzali, a prendere un farmaco per nasconderli e continuare la propria vita sociale e lavorativa, contribuendo alla diffusione di tutti i malanni di questo mondo, cosa che sicuramente fa molto comodo alle case farmaceutiche produttrici dei prodotti in questione, molto meno alla comunità. Già che ci siamo, anche quella delle caramelle che promettono di "sterminare virus e batteri" è parecchio scorretta: al mondo esistono forse venti farmaci antivirali, sicuramente nessuno è un farmaco da banco.
2.2.1 Corollario del tempo libero applicato: se tutti vivono come indicato nel corollario del tempo libero, l'economia crolla.
2.2.1.1 Teorema del buon senso: se avete anche solo un ragionevole sospetto di poter essere contagiosi o di essere soggetti fragili, state a casa, altrimenti uscite pure.
2.3 Raccomandazione sulle pubblicità criminali: dovrebbero essere sanzionate le pubblicità che invitano, in caso di sintomi influenzali, a prendere un farmaco per nasconderli e continuare la propria vita sociale e lavorativa, contribuendo alla diffusione di tutti i malanni di questo mondo, cosa che sicuramente fa molto comodo alle case farmaceutiche produttrici dei prodotti in questione, molto meno alla comunità. Già che ci siamo, anche quella delle caramelle che promettono di "sterminare virus e batteri" è parecchio scorretta: al mondo esistono forse venti farmaci antivirali, sicuramente nessuno è un farmaco da banco.
Tutto questo per dire che stamattina in ospedale c'era pochissima gente, la zia ha trovato facilmente parcheggio proprio di fronte all'ingresso. Il personale della radiologia mi ha detto che in questi giorni il Pronto Soccorso è pressoché vuoto, arrivano effettivamente solo i casi urgenti e questo permette a tutti di lavorare meglio. Anche al radiologo. Che mi ha refertato subito la TAC. Ed è negativa, non ci sono segni di malattia.
Qui si respira a pieni polmoni e si festeggiano altri tre mesi di libertà.