Sono chiusa in casa da giorni, ho messo il naso fuori dalla finestra solo per sbattere il plaid dei gatti ed è stato stranissimo vedere la tangenziale vuota, non è passato nemmeno un veicolo, mancavano solo i cespugli rotolanti.
Per me le cose non sono cambiate molto. Lavoro da casa già da quattro mesi, l'unica differenza è che ora non vado in ufficio nemmeno la mezza giornata del mercoledì. Prima del coronavirus uscivo raramente, ora non esco per niente. Qualcuno veniva a trovarmi ogni tanto, ora no. Piccole rinunce, davvero roba da poco, che non mi creano particolare disagio.
Ho paura? Sì, un po'.
Per il momento sto bene, giusto un po' ipocondriaca. Cos'è questo colpo di tosse? (saliva di traverso) Perché stamattina mi gocciola il naso? (il mio naso gocciola sempre al mattino) Come mai oggi mi sento così debole? (nella sessione di ginnastica di martedì sono riuscita a tenere solo 20 secondi di plank anziché 30, voglio vedere voi...)
Il rischio di contagio per me dovrebbe essere relativamente basso, proprio per la vita ritirata che faccio e facevo anche prima, ma non vivo sotto una campana di vetro. Renato va al lavoro e a fare la spesa, con la massima prudenza, ma il virus potrebbe essere annidato ovunque. Ho il sospetto che la pandemia si fermerà solo quando tutti o quasi saranno stati contagiati, potrebbe non essere una questione di "se" ma di "quando".
Non so se ho più paura della malattia in sé - con il mio livello di globuli bianchi le probabilità di sviluppare sintomi severi sarebbero piuttosto elevate - oppure di quello che potrebbe comportare: di nuovo in ospedale, in isolamento, senza Renato e senza gatti, di nuovo debole e senza autonomia, imprigionata in quel mondo di letti scomodi e bagni in comune, di orari rigidi e rumori molesti, di odori e sapori sgradevoli. È una prospettiva devastante.
Però non ci penso spesso, per lo più sono tranquilla.
Non sono tranquilli invece quelli che devono prendere decisioni da cui dipende la salute degli altri.
Pubblici amministratori, datori di lavoro, dirigenti, medici: persone che devono stabilire cosa chiudere e cosa no, chi va al lavoro e chi sta a casa, chi va in terapia intensiva e chi no. E che hanno la responsabilità di proteggere i cittadini, i dipendenti, i collaboratori, i pazienti.
Non vorrei essere nei loro panni, davvero.
Governo, Regioni e Comuni che cercano soluzioni per fermare il contagio senza fermare il Paese. Si può far meglio? Sicuramente. Chi ha tutte le risposte e le soluzioni giuste alzi la mano, io no: credo che in una situazione completamente inedita qualche errore sia inevitabile.
La mia azienda è una di quelle che non può fermarsi perché forniamo, tra le altre cose, anche un pubblico servizio. Capi e colleghi sono impegnati a definire le strategie per minimizzare i contatti e i rischi di contagio e a mettere a disposizione gli strumenti di protezione per chi deve necessariamente recarsi al lavoro. Non oso immaginare la pressione a cui sono sottoposti.
Per non parlare di chi gestisce ospedali, cliniche e strutture di accoglienza per soggetti fragili, in cui un focolaio epidemico può provocare una strage. O dei medici che devono gestire più pazienti che posti letto.
Sono responsabilità enormi e io ho una grande ammirazione per le persone che hanno il coraggio di assumersele. Certo, c'è chi le gestisce con saggezza e prudenza e chi invece le affronta in modo superficiale e sconsiderato.
Ecco, io vorrei ringraziare oltre a tutti gli eroi che negli ospedali stanno combattendo una battaglia titanica per salvare più vite possibile, anche tutti quelli che dietro a una scrivania sono chiamati a prendere decisioni difficilissime e, con coscienza, fanno del loro meglio.
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