Non
si può mai prevedere come gira il vento. Il giorno prima è tutto normale, loro girano per casa, vanno e vengono,
ognuno secondo i propri orari. È vero, lei
si lamenta già da qualche mese di bruciori di stomaco e nausea, cammina sempre più
lentamente, fatica a muoversi, fa i gradini uno per volta, come se portasse un
peso troppo grosso, ma tutti conducono più o meno la solita vita.
E
poi una mattina, di colpo, lei fa
la valigia, sparisce e tutto cambia. Io odio le valigie. Le valigie significano
partenze e a me non piace che loro
se ne vadano.
Lui e la madre
sembrano agitati, escono di casa a ore insolite. Parlano poco, con parole dal
suono minaccioso: ospedale, ricovero,
TAC, intervento. Io e Susi osserviamo, inquieti, mentre passano le prime tiepide
giornate di primavera. È chiaro che qualcosa non va.
Una
mattina escono tutti molto presto, tesi e preoccupati. Tornano solo all'ora di
cena, esausti e sconvolti. Le parole questa volta suonano terrificanti: liposarcoma, enorme, sette chili e mezzo,
cancro.
Durante
la notte suona il cellulare che lui
tiene sul comodino. Si alza di colpo, così spaventato che quasi non riesce a
tenere in mano il telefono. Ascolta per un po', poi risponde brusco: "Ha sbagliato numero". Dopo circa
mezz'ora, il telefono suona di nuovo e lui
risponde ancora; non è più preoccupato, ma arrabbiato: "Io non sono Gianni, ha sbagliato numero!".
Alla terza telefonata è furioso: "Non
sono Gianni, non sono amico di Gianni, non so nemmeno chi sia Gianni! La smetta
di telefonarmi o chiamo i Carabinieri!". Finalmente il telefono tace.
Nei
giorni seguenti è tutto un andirivieni di persone e squillare di telefoni; solo
di giorno, però. Loro sono ancora preoccupati e restano
spesso fuori casa per diverse ore, addirittura un paio di volte non rientrano
per la notte, anche se non hanno la valigia. Parlano di vomito, tosse e dolori, di
catetere peridurale, sondino naso-gastrico e nutrizione parenterale, ma anche di
medici attenti e di infermieri gentili e premurosi. E poi, finalmente,
risuonano parole più serene: cammina, mangia,
dimissione. Iniziano di nuovo a sorridere, raccontando della babbiona, che hanno
messo in camera con lei, che è
andata in crisi isterica perché doveva affrontare un piccolo intervento per
rimuovere i calcoli biliari, poi ha iniziato a lamentarsi del suo taglietto di
tre centimetri proprio con lei, che
ha un taglio che le attraversa tutta la pancia, tenuto insieme da trentanove
punti. Come se non bastasse, la megera ha passato due interi giorni senza mai
portare in bagno una saponetta per lavarsi. Bleah!
Finalmente
lei torna, ma è cambiata. È molto più
magra e ha la pelle così chiara che sembra trasparente. Fa ancora fatica a
muoversi, ma in un modo diverso: ora sembra che ogni movimento le provochi
dolore. Però, adesso che è a casa, siamo tutti più contenti.
I
primi giorni rimane sul divano, sotto l'occhio vigile di Susi, che è vecchia, sorda
e anche un po' antipatica perché non vuole mai giocare con me, però non è
stupida e la conosce da tanto tempo, ha capito che c'è bisogno di lei. Alla
sera invece, quando lei si mette a
letto, è il mio turno di starle vicino.
Una
mattina, mentre gli altri sono fuori, sento un lamento: lei si è fatta male. È successo qualcosa alla schiena,
cammina a fatica, rigida e sofferente; piano piano sale le scale, gemendo, e va
a stendersi sul letto: devo fare gli straordinari. Fa un paio di telefonate,
poi rimane lì, con gli occhi chiusi in quel viso troppo pallido. Io non posso
fare altro che restare a farle compagnia. Finalmente torna la madre e poco dopo arriva un'altra donna,
una che non ho mai visto. La squadro con gli occhi socchiusi, vagamente
minacciosi, tanto per chiarire che se ha intenzioni ostili, dovrà vedersela con
me. Si ferma un po' lontano dal letto e mi guarda, preoccupata. Chiede se sono
pericoloso e lei risponde di no.
Be', dipende: io posso essere molto pericoloso, se voglio. Ma sembra che non
sia necessario: la donna è un medico, è venuta per aiutare. Ancora parole
strane: contrattura, analgesici, antinfiammatori. E poi una che conosco e
che mi piace: riposo. Rimango a farle
compagnia anche dopo che la donna se n'è andata e la madre è scesa a preparare il pranzo.
Lei mangia poco in questi giorni, e cose
diverse dagli altri, cose con poco colore e poco profumo. La madre, che di solito prepara pasti
abbondanti e saporiti, si rassegna malvolentieri a servire piatti di riso
all'olio e patate, che alla fine del pasto rimangono mezzi pieni. I primi
giorni niente frutta e verdura, altrimenti le fa male la pancia, ma lei dice che ha gli occhi stanchi, che ha
bisogno di vitamine, e allora lui
le porta succhi di mirtillo e di carota che lei
beve tra mille smorfie, dicendo che sono troppo dolci.
Dopo un paio di
giorni riesce di nuovo a scendere le scale e torna sul divano, con Susi che la
tiene d'occhio, mentre io la sorveglio quando sta a letto. Comincia anche a
stare in piedi un po' di più, si siede a tavola per mangiare e fa qualche passo
in giardino. Passa molto tempo davanti al computer, seria e concentrata, come
se cercasse qualcosa; sullo schermo passano parole sinistre: sarcoma, stadiazione, protocolli,
sopravvivenza.
Ogni tanto si
assenta per qualche ora, e torna stanca, parlando di medicazioni e di punti che
non si chiudono. Un giorno rientra pallidissima e visibilmente provata, e
racconta alla madre che vorrebbe
tanto buttare un po' d'acqua ossigenata sulla carne viva di quella dottoressa
che le ha detto che non brucia. Un'altra volta torna a casa con un foglio pieno
di parole spaventose: liposarcoma,
mixoide, aree pleomorfe, grado 3 FNC LCC. Si mette subito al computer,
cercando. Man mano che legge, si irrigidisce. Non lo dice, ma so che nella sua
mente si sta formando la parola più terribile: morte.
Nei giorni
successivi, lei passa molto tempo
al telefono, parlando di appuntamenti,
visite e consulti. È impaziente, sembra un animale in gabbia (credetemi, so
benissimo di cosa parlo), ma per tre settimane non succede niente; a tutti
quelli che telefonano lei ripete: non so, sto aspettando, vedremo e si
capisce benissimo che questa attesa la sta logorando più dei dolori. Di colpo
ricomincia ad uscire e racconta di esami
del sangue, TAC, radioterapista, oncologo, sorveglianza clinica, controlli
trimestrali; ci sono anche parole straniere, no-treatment e follow-up, che la madre non capisce e lei spiega così: "Hanno deciso di non fare niente. Aspettiamo
e speriamo che non torni". Aspettano.
Tre mesi dopo
sono di nuovo tutti tesi e preoccupati, mentre parlano di controllo, analisi, TAC, visita. Per fortuna dura poco, dopo una
settimana si rilassano e tornano allegri. Questa alternanza di paura e gioia sarà
solo la prima di tante.
Di nuovo dopo
tre mesi: tensione, controlli, sollievo. Ma questa volta la gioia è offuscata
dalla nuvola nera che è scesa per sempre sugli occhi di Susi. Non ci vede più.
Me ne sono accorto perché un giorno mi è venuta addosso, lei che non ne aveva
mai voluto sapere di avermi vicino. Ormai non esce quasi mai, solo un'oretta
ogni tanto, quando il tempo è bello e la madre
la accompagna in giardino. Rimane sotto il portico a godersi quel sole che non
può più vedere, mentre io, senza farmi notare, mi assicuro che nessuno la
disturbi. Una mattina la trovo in salotto, con lei
e la madre, che le parlano
dolcemente e piangono. E poi non la trovo più.
È passato un
anno da quando lei aveva fatto la
valigia ed è tornata la primavera. Lei la assapora con tutti i sensi: non
era affatto sicura di vederne un'altra.
Si capisce
facilmente quando si avvicina il periodo dei controlli, perché Lei diventa ogni giorno più tesa e
irritabile, mentre lui e la madre sopportano, comprensivi, ma si
vede che anche loro sono spaventati. Questa volta parlano di mezzo di contrasto, allergia, premedicazione.
Alla fine però si rilassano di nuovo, è iniziano a fare progetti: brevetto sub, agosto, vacanze, montagna. Per loro è tutto a posto, per
me invece no: significa che faranno di nuovo le valigie.
Al ritorno dalle
vacanze sono di nuovo preoccupati per un dolore all'ascella. Lei fa qualche telefonata, chiede di
anticipare i controlli, ma le rispondono che non si può. Allora decide: ecografia, a pagamento. Torna tutta sorridente: falso allarme, dice. E di
nuovo parlano di vacanze: ottobre, Mar Rosso, immersioni, prenotato.
A settembre c'è
il solito giro di controlli, ma lei
è tranquilla perché si sente benissimo: fa ginnastica quasi tutti i giorni, va
in piscina, è piena di energie e di progetti. Sono andati insieme, lui e lei,
a ritirare il referto della TAC. Quando lei
torna a casa, alla sera, è calmissima. Troppo. Si siede davanti alla madre e parla: nuova massa, recidiva.
Anche la madre è calma: "Vediamo cosa si può fare. E facciamolo."
Lui è distrutto, ma vedendole così
determinate, si sforza di essere coraggioso, per lei.
Lei
torna dalla prima visita arrabbiata: "Avevo
telefonato per avvertire, ma la dottoressa non sapeva niente!",
racconta alla madre. Passano due
settimane di ansia prima della telefonata dall'ospedale in cui le parlano di piano terapeutico e protocollo sperimentale. Nel frattempo, lei cerca di finire tutti i lavori che ha in sospeso e
annulla la vacanza sul Mar Rosso.
Alla visita
successiva vanno tutti insieme, lei,
lui e la madre, perché lei vuole
che tutti sappiano cosa li aspetta nei prossimi mesi. Tornano contenti perché lei è stata affidata allo stesso
radioterapista con cui aveva parlato un anno e mezzo fa e che le aveva fatto
una buona impressione.
La settimana
seguente, vanno di nuovo in ospedale insieme. Quando tornano, nel pomeriggio, lei è rigida e indolenzita e si mette a
letto. Vado subito a controllarla e scopro che ha un tubicino che le esce dal
petto, poco sotto la clavicola destra. Lo chiama CVC, catetere venoso centrale.
Due giorni dopo, lui la accompagna
di nuovo in ospedale e al ritorno attaccato al tubo c'è un serbatoio
trasparente da cui lei non si separa
mai, nemmeno quando dorme: chemioterapia
in infusione continua, dicono.
All'inizio non
le dà fastidio, il giorno dopo esce a cena con lui,
ma alla terza notte capisco che c'è bisogno di me e mi piazzo sul suo letto. Dorme
male, si alza prestissimo e si precipita in bagno a vomitare. Continua così per
tutte le due settimane successive; per un po' è tranquilla a letto o davanti al
computer nel suo studio oppure sul divano, poi di colpo si precipita in bagno,
dove passa parecchio tempo ed esce con l'aria stravolta. È sempre stanca, rimane
molto a letto, ma a me non dispiace e resto volentieri a farle compagnia.
Ogni tanto al
mattino esce: quando torna presto, parla di emocromo,
quando invece rimane fuori più a lungo, racconta alla madre di sostituzione della
pompa e poi di fine primo ciclo. Due
giorni dopo quest'ultima uscita capisco che non ha più bisogno di assistenza
notturna, almeno per ora: dorme sempre tanto, ma non va più in bagno a vomitare
e ricomincia anche ad uscire; un paio di volte rimane fuori tutta la giornata,
parlando di lavoro.
Organizza
addirittura una festa, per il compleanno di lui,
ma ha qualcosa di strano, un berretto in testa, di quelli che di solito usa
d'estate per proteggersi dal sole quando lavora in giardino. Solo che adesso
non è estate, è sera e la festa è dentro casa, non in giardino. Il giorno dopo la
vedo ancora più strana: non ha più nemmeno un pelo in testa, solo la pelle
liscia e lucida. Rimane così per tutto l'inverno ed è chiaro che c'è qualcosa
che non va, perché il pelo bisognerebbe perderlo d'estate, non adesso che
inizia a fare freddo. E poi lei non
l'aveva mai perso prima; non tutto, almeno. Se capitasse a me, non avrei il
coraggio di farmi vedere in giro, andrei a rintanarmi nell'angolo più buio e
lontano da tutti, invece a lei
sembra che non importi, anzi ci ride sopra dicendo che così non perde tempo a
pettinarsi; solo qualche volta tiene un berretto in testa, perché dice che ha
freddo. Però vedo che gli altri la guardano in modo strano per quella testa pelata.
Dopo due
settimane tranquille, un giorno lei
torna di nuovo a casa con il serbatoio, parlando di secondo ciclo. I primi due giorni la tengo d'occhio con
discrezione, ma non sembra aver bisogno di me. Dal terzo giorno in poi riprendo
la sorveglianza ravvicinata, perché inizia di nuovo a stare male, tanto. Passa
ancora molto tempo in bagno, anche se vomita meno della prima volta, però è solo
perché non riesce quasi più a mangiare. Dormiamo tantissimo, insieme, un po'
sul divano e sempre più spesso a letto, perché lei
ha tanta nausea che non riesce nemmeno a parlare, ha bisogno di tranquillità e
silenzio. Io le faccio sempre compagnia, ma non la disturbo mai e so che la mia
presenza la conforta.
Qualche giorno
dopo l'applicazione del serbatoio lei
inizia ad uscire tutte le mattine. La vengono a prendere amici e parenti, ogni
giorno una persona diversa. Racconta alla madre
che la radioterapia non dà fastidio,
però io la vedo indebolirsi ogni giorno di più. È sempre più stanca e pallida,
ha occhiaie profonde, si muove a fatica. Qualche volta deve chiedere aiuto,
perché non ce la fa nemmeno a stare in piedi, e allora piange di rabbia. Ha
sempre freddo, tanto freddo. La madre
accende il caminetto e lei si
rifugia sotto una pila di coperte, ma trema e allora lui la abbraccia per riscaldarla.
Un giorno parla
con il suo amico medico, il nostro vicino di casa; un tipo simpatico, anche se ha
un grosso cane che vorrebbe uccidermi. Lei
gli parla di disidratazione, spiega
che non riesce più a bere, che ha bisogno di liquidi. Lui fa una telefonata
parlando di Pronto Soccorso. Lei esce e rimane fuori fino a sera; quando
torna sta un po' meglio, ma la mattina dopo sta di nuovo male e la tengono in
ospedale per tutta la giornata.
Finalmente le
tolgono il serbatoio e dopo due giorni inizia a stare meglio, ricomincia a
mangiare un po', ma è sempre tanto stanca. Al mattino esce per la radioterapia e quando torna, si mette
subito a letto, a dormire. Quando parla di emocromo,
si rabbuia. Leucopenia, dice un
giorno, rientrando con una mascherina chirurgica sul viso: non ha quasi più
difese immunitarie. Non si avvicina a me e quella sera, per la prima volta,
trovo la porta della sua camera chiusa. Busso e la chiamo, ma non mi apre. La madre mi raggiunge davanti alla porta e
mi spiega che lei oggi non può
starmi vicino, per non rischiare di ammalarsi. Che discorso assurdo: è già
ammalata e io la sto aiutando! Piango. Niente da fare. La madre mi propone di dormire con lei, tentando
di distrarmi, ma non funziona. Piango ancora. Per fortuna lei non è stupida: il giorno dopo ci
guardiamo dritto negli occhi e ci capiamo al volo; mi dice "Al diavolo, non mi porterai certo più batteri
e virus di mia madre quando torna dal supermercato!". E mi fa segno di
raggiungerla.
La madre le fa un'iniezione, la chiama fattori di crescita. La madre una volta faceva l'infermiera, è
brava a fare le iniezioni, le ha fatte anche a me qualche volta, e so che non
fanno male. Qualche ora dopo però, lei
si alza per andare in bagno e inizia un gemito di dolore che aumenta di volume
fino a trasformarsi quasi in un ululato. Non dura molto, forse un paio di
minuti, ma a me che la sto aspettando in camera, fa drizzare i peli e spacca il
cuore.
Si avvicina
Natale, ma lei non ha ancora
decorato l'albero. Aspetta di invitare i suoi nipoti, che vengono ogni anno ad
aiutarla, ma questa volta non si può: niente
visite, hanno detto i medici. Alla fine, lei
ingoia le lacrime e prepara l'albero di Natale da sola. Niente festeggiamenti
in compagnia, quest'anno: solo noi, a casa, come piace a me.
Con l'inizio del
nuovo anno, le cose migliorano: lei
rimane quasi sempre a casa, esce solo un paio di volte alla settimana, per qualche
controllo. Non deve più mettere la mascherina, ma dice che i globuli bianchi sono ancora troppo pochi,
che bisognerà rinviare l'intervento.
Inizia
sempre più spesso a soffrire di
uno strano disturbo: di colpo, diventa tutta rossa e inizia a sudare
abbondantemente, al punto che spesso di notte si deve alzare per lavarsi e
cambiare maglietta. Parla di menopausa
e vampate e ci scherza su, dicendo
che è una fortuna avere la testa pelata, così sente meno caldo. Un giorno, di
ritorno da una visita in ospedale, parla con lui
di livelli ormonali e sterilità. Fa la faccia coraggiosa, ma
io lo so che è tanto triste.
Dopo più di un
mese di tranquillità, un giorno, improvvisamente, inizia a parlare di pre-ricovero, day hospital e degenza; è
frenetica: riordina il suo studio in modo maniacale e - soprattutto - prepara
la valigia. Se ne va un'altra volta.
Lui
è di nuovo teso e preoccupato, e anche la madre,
che però lo nasconde meglio. Ancora una volta escono al mattino presto e
tornano alla sera. Parlano di intervento
riuscito e terapia intensiva. Lui dorme inquieto e ogni tanto nel
letto allunga una mano, come per cercarla. Al mattino, prestissimo, lo squillo
del cellulare che ha tenuto acceso sul comodino lo fa sobbalzare. Spaventatissimo,
prende il telefono. Gli sfugge di mano. Cade. Lo raccoglie e lo porta
all'orecchio. Ascolta. "Sì, va bene,
grazie". Sospira di sollievo e avverte la madre: "Sta bene,
la terapia intensiva non serve più, la riportano in camera".
Finalmente, dopo
una settimana, lei ritorna. Un po'
pallida e sofferente, ma non come la prima volta. Si è subito sistemata sul
divano e io ho ripreso il mio posto al suo fianco. E guai a chi prova a
disturbarla!
Ha dolori forti,
a volte di notte rimane sveglia per ore, in silenzio, aspettando che passino.
Quando proprio non ce la fa più, prende una pastiglia. Ogni tre o quattro
giorni torna all'ospedale e una volta rientra con la faccia cupa, parlando di referto istologico e infiltrazioni maligne. Sembra un
deja-vu, la replica di quello che è successo due anni fa.
La ripresa è
lenta: lei rimane quasi sempre sul
divano, fa fatica a stare in piedi e a camminare, le fa molto male l'inguine.
Ancora visite ed esami e una parola nuova: linfocele,
una bolla di liquido nella pancia; lei
lo chiama "la palla".
Con il passare
del tempo, un po' alla volta, i dolori si riducono, e lei ricomincia a stare seduta e a camminare. Un giorno torna
a casa tutta contenta perché non ha più il tubicino sul petto: ora è tutto
molto più normale.
Ricomincia la
giostra dei controlli trimestrali: tensione, paura e poi sollievo: una volta,
due, tre. Poi l'intervallo si allunga un po', a quattro mesi, poi cinque e
infine sei.
Il tempo passa,
i mesi diventano anni: due, tre, quattro cinque. Lei e lui sono
ancora qui, la madre invece un
giorno ha fatto la valigia e non è più tornata. L'ho sempre detto, io, che le
valigie sono pericolose. Infatti adesso ogni volta che ne vedo una mi spavento
e cerco di infilarmici dentro, per essere sicuro che lei non se ne vada senza di me. Perché non si sa mai.
Io sono il Custode.
È compito mio
vegliare su di lei, anche se sono
vecchio e zoppico. Sarò sempre pronto al suo fianco, quando avrà bisogno di me,
fino a che avrò orecchie per sentirla, occhi per vederla, zampe per
raggiungerla, pelo per riscaldarla e baffi per farle il solletico. Fino a che
avrò cuore per amarla, le mie fusa saranno la sua ninna nanna.
(racconto classificato al terzo posto ex-aequo alla seconda edizione del concorso letterario Scriviamoci con Cura organizzato dal CRO di Aviano)