Qualche volta nella vita si può scegliere, altre volte, volenti o nolenti, si viene scelti e bisogna fare di necessità virtù.
L'autunno del 1982 aveva portato grandi novità nella mia vita. Avevo iniziato il liceo, un mondo completamente nuovo e tutto da scoprire, in cui, pur senza sentirmi fuori posto, mi rendevo conto di quanto l'essere figlia unica, molto solitaria e cresciuta dai nonni anziani, mi rendesse diversa dalla maggior parte degli adolescenti. Nell'ambito puramente scolastico non avevo nulla da invidiare ai miei compagni, avevo ottenuto ottimi voti fin dalle prime interrogazioni e compiti in classe, ma ero terribilmente indietro dal punto di vista sociale. Le ragazze vestivano quasi tutte all’ultima moda, io mettevo insieme alla bell'e meglio quello che trovavo in casa, spesso ereditato dai cugini più grandi. Sentivo citare continuamente programmi televisivi che non avevo mai visto, le TV private sarebbero entrate in casa nostra solo l'anno successivo, dischi che non conoscevo, libri che non avevo mai letto, prodotti di marche che non avevo mai sentito nominare. Gli studenti più grandi leggevano i giornali, parlavano di politica, organizzavano assemblee, scioperi e manifestazioni. Osservavo e ascoltavo, a volte fingendo di capire per non fare brutta figura, ma con la piena consapevolezza di quanto fosse evidente la mia arretratezza su tanti aspetti che sembravano fondamentali per integrarsi nell'universo degli adolescenti liceali.
Era iniziata da poche settimane anche la stagione sportiva e sentivo forte l'emozione e l'orgoglio per essere stata chiamata ad allenarmi con la prima squadra. Non sono mai stata timida, ma guardavo con un po' di soggezione le ragazze più grandi, che giocavano già da qualche anno, mentre io avevo iniziato solo pochi mesi prima, con le “piccole" che non facevano campionati, e la mia unica esperienza in campo era stata una partita, una di numero, con la squadra della scuola media.
Mi allenavo con grande impegno, a testa bassa, cercando con tutte le mie forze di ottenere buoni risultati. Già allora ero molto competitiva e ci tenevo a fare bene, ma avevo e ho sempre avuto solo un unico avversario da battere: i miei limiti.
Ricordo bene il giorno dell’assegnazione delle maglie da gara. Quell’anno c’era un nuovo sponsor ed erano state appena realizzate, bianche con scritte nere, mentre la tuta era nera con inserti bianchi.
Puntavo decisamente al numero 2 ma, se non fossi riuscita ad aggiudicarmelo, avevo deciso che l’alternativa dovesse essere un numero dispari.
Quando l'allenatore aveva iniziato a estrarre le maglie dallo scatolone, annunciando il numero e la taglia e chiedendo chi la volesse, avevo realizzato che alcuni numeri erano già tacitamente assegnati alle giocatrici più anziane, che riprendevano quelli che avevano usato nelle stagioni precedenti. Non sapevo se il 2 fosse tra quelli e nemmeno se sarebbe stata una taglia abbastanza grande per me: potevo solo sperare.
C'erano quindici numeri disponibili, la distribuzione procedeva spedita, senza un ordine preciso. Cinque, quattordici, uno, sette, undici, sei, tre… il due tardava a uscire e io ero sulle spine: se non fossi riuscita a conquistarlo, mi sarei dovuta accontentare degli avanzi. Mancavano solo tre numeri quando finalmente l'allenatore aveva annunciato il 2. Prima ancora che dicesse la taglia, una delle giocatrici più esperte aveva allungato la mano, ignara della mia silenziosa disperazione, solo di poco mitigata dal fatto che quella maglia era comunque troppo piccola per me.
Delle due divise rimaste, una non ricordo quale numero avesse, ma era piccola. L'altra, taglia grande, aveva il numero 8.
Otto. Pari. Che schifo. Un numero che non mi diceva nulla, insignificante, privo di attrattive.
Già mentre lo prendevo, avevo deciso che alla prima occasione l’avrei cambiato e con quella convinzione avevo affrontato il campionato under 17, che all'epoca si chiamava “ragazze", e poi l'under 15 e la seconda divisione. Chissà, magari l'anno seguente ci sarebbero state nuove divise, una taglia grande per il 2 oppure qualsiasi altro numero. Qualsiasi, purché non fosse l'8.
Avevo mantenuto ben saldo questo proposito per tutta la stagione. Mi ero integrata bene nella squadra, ormai me facevo parte a pieno titolo, e l'anno seguente non mi sarei fatta scavalcare da nessuno.
Andò proprio come mi ero ripromessa.
All’inizio della stagione 1983/1984, arrivarono nuove divise, stesso sponsor e stessi colori, e chiesi e ottenni esattamente quello che volevo: il numero 8. E di nuovo, ogni anno, per gli undici anni che seguirono.
Non l'avevo scelto, mi aveva scelto lui: all’inizio non lo sapevo, ci ho messo un'intera stagione a capirlo, ma era ed è sempre stato il mio numero.
Lo è ancora.