Pur non essendo credente, non ho nulla contro le suore, anzi di solito le trovo simpatiche.
Sarà che ne ho una in famiglia che è un eccellente esempio di carattere equilibrato ed efficienza professionale, sarà che la maggior parte di quelle che ho conosciuto sono persone gradevoli e serene e non di rado dotate di apertura mentale e tolleranza ben superiori a quelle di tanti intellettuali "illuminati", tanto ingabbiati dalle loro ideologie anticlericali quanto lo sono certi fondamentalisti religiosi.
Da ragazzina sono rimasta molto perplessa nello scoprire che diversi coetanei ritenevano le suore portatrici di sfortuna, tanto che dalle nostre parti era prassi comune - vedendone una - cercare di scaricare la presunta iella sulla persona più vicina, toccandole una spalla e pronunciando la formula scaramantica "Suora tua!". Ho sempre accettato di buon grado di essere vittima di questi rituali antisfiga, che per me non avevano alcun valore, ma servivano evidentemente agli altri per sentirsi meglio.
Sicuramente la mia opinione positiva sulle suore è stata influenzata dalle esperienze infantili e per ricostruirne l'origine bisogna andare indietro di una quarantina d'anni e spostarsi a Battaglia Terme, alle pendici dei Colli Euganei, nello stabilimento termale INPS in cui mia madre, la Maria, ha lavorato per molti anni.
Era uno stabilimento enorme, degno antenato dei moderni resort, dotato di tutti i servizi e in grado di ospitare parecchie centinaia di assistiti, che si avvicendavano durante tutto l'anno, ad eccezione del periodo natalizio, con turni di due settimane interamente a carico dell'INPS, che rimborsava anche le spese di trasporto, arrivando persino a fornire il "cestino" con il pranzo al sacco per il viaggio di ritorno (capite ora che non c'è da stupirsi se poi l'INPS si è trovato con i conti in rosso...).
Naturalmente c'era il reparto cure S. Elena, con vasche di fanghi termali alimentate da una sorgente di acqua calda, una straordinaria grotta naturale, postazioni per bagni e inalazioni.
La struttura residenziale comprendeva camere da letto e bagni, la sala da pranzo, due grandi sale comuni con televisore e tavolini, il bar di Ilario con il bilardo, un piccolo bazar e addirittura una cappella, in cui l'anziano don Valente veniva ogni giorno a celebrare Messa.
Nel corpo centrale si trovavano anche gli ambulatori in cui la mamma svolgeva il suo lavoro insieme ai medici e alle altre infermiere, gli uffici e addirittura un laboratorio di analisi e una piccola radiologia. Per il personale sanitario e amministrativo c'era una sala da pranzo separata con una piccola cucina; i pasti arrivavano con un montacarichi dalla cucina principale, ma Franco, l'addetto al servizio di sala, era sempre disponibile per preparare uno spuntino fuori orario quando le esigenze di servizio impedivano a qualcuno di sedersi a tavola all'orario consueto. Figuriamoci se la Maria non si infilava ogni tanto in cucina a preparare qualche manicaretto... E anche qualche scherzo: ricordo che una volta presentò ai colleghi pesche con la maionese, sostenendo, con perfetta faccia di bronzo, che si trattava di una specialità di alta cucina francese: le fecero anche i complimenti!
La gigantesca cucina principale era gestita con competenza e pugno di ferro dalla altrettanto gigantesca capo cuoca Armida, un donnone rubicondo con mani grandi come badili (chissà se era davvero così mastodontica oppure è solo il mio ricordo di bambina?).
All'epoca non c'erano cooperative o società di servizi esterni, quindi nel seminterrato dello stabilimento (che i dipendenti chiamavano "sotterranei"), oltre ai locali tecnici (caldaia, centrale elettrica), c'erano la lavanderia, la stireria, il guardaroba, il magazzino, la dispensa, l'officina dei manutentori e addirittura una piccola falegnameria.
Il giardino... no, non era un giardino, ma un vero e proprio parco, amorevolmente curato da un piccolo drappello di giardinieri, e comprendeva giardini all'italiana con aiole geometriche sempre piene di fiori colorati ed una fontana di acqua calda, zone alberate, un grande prato e un meraviglioso viale contornato da enormi magnolie.
Ho tanti ricordi di quello stabilimento: da bambina sono andata innumerevoli volte a trovare la mamma al lavoro e lì mi conoscevano tutti. Ho passato ore a giocare nel parco, a esplorare i sotterranei, a usare la macchina per scrivere in segreteria (ecco, ho scoperto l'altarino, ora sapete da dove è nata la mia velocità di battitura...), a "mettere in ordine" le confezioni dei farmaci nell'ambulatorio della mamma, ovviamente secondo criteri tutti miei, basati fondamentalmente su dimensione e colore delle scatole, a correre per i corridoi, approfittando dei pavimenti in marmo trattati a cera per "pattinare".
Ho voluto ricordare queste cose non solo per un accesso di nostalgia senile, ma anche perché di tutto questo non è rimasto niente. Lo stabilimento è chiuso dal 1993, abbandonato e ormai in rovina ed è davvero un peccato che una struttura così notevole non venga utilizzata in qualche modo. Cercando le foto per questo post, ho trovato un video su YouTube che ne descrive la desolazione e ci sono rimasta davvero male.
Che c'entrano le suore? Ora ci arrivo.
All'interno dello stabilimento, in un appartamento all'ultimo piano, risiedeva una piccola comunità di suore, appartenenti all'Ordine delle Figlie di San Giuseppe, che si occupavano con precisione e competenza di alcuni servizi: Suor Stefana amministrava con assoluto rigore la segreteria, Suor Gerolama - poi trasferita alla Casa Madre di Roma e sostituita da Suor Domenichina - era responsabile della dispensa e degli acquisti alimentari, Suor Ermelinda gestiva il magazzino, Suor Ida il guardaroba... Le suore mi erano affezionatissime (e io a loro); la mia condizione di "orfana di fatto" (mio padre era vivo, ma abitava dall'altra parte del mondo e non si è mai occupato di me) era per loro fonte di grande dispiacere e di incessanti preghiere.
Quando andavo a trovare la mamma, le suore dividevano con me il loro pasto. E finalmente arriviamo al punto: Suor Ernestina.
Avete presente il film Sister Act? Vi ricordate di Suor Maria Patrizia, quella grossa e sempre allegra e sorridente? Ecco, suor Ernestina era proprio così: una enorme, straripante inesauribile sorgente di buonumore.
A volte capitava che a tavola ci fosse qualche particolare leccornia, come le ciliegie o le patatine fritte. Le altre suore rinunciavano volentieri alla loro parte per lasciarne un po' di più per me.
Questi "fioretti" però erano troppo per il vorace appetito di Suor Ernestina: mettevamo il piatto in mezzo tra noi due e ci servivamo a turno. Ad ogni ciliegia - o patatina - Suor Ernestina doveva fare i conti con un pizzico di senso di colpa per non riuscire a resistere alle tentazioni della gola e diceva "Ancora una e dopo basta!"... e naturalmente il "basta" arrivava davvero solo quando il piatto era vuoto.
Quel modo di dire mi è tornato in mente qualche giorno fa, insieme a tutta l'ondata di ricordi che ho rovesciato su questa pagina, quando ho tirato fuori un vecchio pigiama che mi era stato regalato più o meno vent'anni fa, e ho deciso di utilizzarlo per l'ultima volta prima di buttarlo.
Ancora una e dopo basta.